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Prove tecniche di implosione dell’Eurozona?

La recente e feroce guerra nel cuore dell’Europa ha dimostrato l’ennesimo fallimento dell’Unione europea che ha fatto strame di un progetto assai più logico e del tutto incruento in cui l’Ucraina, uscita dalla morsa dell’impero sovietico, avrebbe dovuto diventare un ponte tra Est e Ovest e non una trincea armata, geografica, ideologica ed economica, inchiodata tra Russia ed Europa occidentale.

Secondo Lucio Caracciolo, direttore ed editore di Limes, la più prestigiosa rivista di geopolitica italiana, la colpa inespiabile dell’Ucraina si concreta – evidentemente non per caso e contro ogni logica politica, economica e diplomatica – in un pendolo che oscilla, sfibrante, tra le marche eurorientali intese come vitali canali di comunicazione e di scambio fra Russia ed Europa e il loro precipitare inesorabile nella tragica dimensione di antemurale dello “scontro di civiltà” fra universi condannati a essere incompatibili.

Anche Massimo Cacciari da tempo sottolinea le incongruenze insostenibile di un’Unione Europea incapace di emanciparsi dalla sua anima bottegaia e mercantile.

Intervenuto nel novembre 2022 a Non è larena, il programma condotto su La7 da Massimo Giletti, ne ha denunciato l’accidiosa ignavia sia nell’ambito dell’emergenza energetica che sul fronte dell’immigrazione.

Una critica che parte da lontano dalla fine (cosiddetta) della Guerra fredda, da lui definita una Terza guerra mondiale, rimarcandone il deficit di fondo, perché da che mondo è mondo dalle guerre si esce con trattati di pace effettivi e non aleatori. «Non con strette di mano come quelle che ci sono state alla caduta del Muro da una parte dicendo “Noi adesso diventiamo democratici” e dall’altra “Noi non allargheremo la Nato a nessun paese dell’Est europeo”, ha spiegato il filosofo.[1]

È dunque mancato un ruolo guida dell’Europa nel dirigere il post-guerra, «è mancata un’Europa che mediasse, che mettesse in relazione, che favorisse i necessari compromessi. È mancata completamente una politica estera europea».Tutto il resto appare come una logica conseguenza, un epifenomeno inevitabile.

Cacciari ha sottolineato impietosamente che allo stato attuale «manca completamente un accordo europeo anche su questioni elementari che ci interessano direttamente», come l’aumento spropositato dei costi che sta mettendo a dura prova le famiglie e le imprese del nostro paese. «Ma è possibile che ci siano dei paesi europei che hanno degli enormi vantaggi da questa situazione e altri paesi che, come il nostro, invece soffrono drammaticamente?». Se manca ogni solidarietà che Unione europea è, si è chiesto Cacciari. E noi con lui…

Non è storia di oggi, incalza l’ex sindaco di Venezia, ricordando la drammatica crisi della Grecia e la continua latitanza sulle politiche dell’immigrazione. L’oracolo finale della sibilla veneziana non lascia scampo a facili vie d’uscita. Se manca l’obiettivo minimo di una solidarietà condivisa, «un’Unione che si regge soltanto sulla moneta unica, sul mercato e sulla circolazione delle merci» quanto potrà durare «in una situazione di crisi internazionale come quella che stiamo vivendo?», ha concluso Cacciari.

D’altra parte, che Eurozona e Unione Europea non se la passino troppo bene lo aveva già rivelato il 23 settembre 2019 a Bruxelles, di fronte al Committee on Economic and Monetary Affairs, commissione permanente del Parlamento europeo che si occupa delle politiche economiche e monetarie dell’Unione europea, l’allora governatore della Bce Mario Draghi, opportunamente alla fine del suo mandato.

In quell’occasione dichiarò infatti, senza alcuna ambiguità, che era necessario valutare altri e nuovi modelli economici per far fronte alla crisi economica dell’Europa, lasciando in qualche modo balenare lo spettro di un possibile tracollo dell’intero sistema.

Draghi parlò esplicitamente di «new ideas about monetary policy» in grado di proporre modalità differenti per introdurre liquidità nel circuito economico (different ways of channelling money into the economy). Arrivando ai confini delle eresie sovraniste…

Valutando con attenzione queste nuove idee, il governatore della Bce spiegava ai presumibilmente basiti accoliti dell’Econ realtà peraltro evidenti: «si comprende che il compito di distribuire denaro verso un soggetto o verso un altro è un compito tipicamente fiscale (cioè di pertinenza relativa al bilancio dello Stato, n.d.a.). È una decisione che spetta al governo. Non spetta alla Banca centrale. Di certo nessuno vuole che sia la Banca centrale a decidere chi debba ricevere denaro (you realise that the task of distributing money to one subject or another subject is typically a fiscal task. Its a government decision. Its not the central banks decision. And you certainly wouldnt want the central bank deciding who should receive the money).[2]

L’affermazione, curiosamente ignorata dalla stampa mainstram…, appare destabilizzante in quanto un governatore della Bce che ripropone, dall’alto della sua autorevolezza whatever it takes, un paradigma realizzabile solo da Stati che dispongono di piena sovranità monetaria lascia planare più di qualche dubbio su una possibile implosione dell’Eurozona. Preoccupazioni e timori appaiono sempre più evidenti.

Il 22 febbraio 2021, nel corso di un incontro con i rappresentanti dei media nell’ambito del riesame della strategia di politica monetaria della Bce, il governatore della Banca d’Italia e membro del consiglio direttivo della Banca centrale europea Ignazio Visco ha spiegato che o l’euro si riforma profondamente e strutturalmente dando vita a uno Stato federale oppure è destinato a uscire di scena. «Una moneta senza Stato può durare fino a un certo momento ma poi c’è bisogno di uno Stato e di un’unione di bilancio», ha detto Visco ricordando come attualmente la Bce sia «l’unica banca centrale federale di un insieme di paesi che non ha una struttura federale».[3]

Le dichiarazioni del governatore di Bankitalia, prosegue il dispaccio della Reuters, richiamano quelle del presidente del Consiglio Draghi in Parlamento la settimana precedente in occasione del discorso programmatico nella sua qualità di nuovo capo del governo italiano. Al Senato, Draghi aveva detto che sostenere il suo governo «significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune».

Un bilancio pubblico comune…

Insomma, e a farla breve, o l’unione monetaria europea trova la forza di trasformarsi in uno Stato federale, con tutte le difficoltà storiche, culturali, economiche, linguistiche e quant’altro che comporta, oppure tutto quel carrozzone senza corpo e anima, fatto solo di interessi, dividendi e portafogli, finirà inesorabilmente e trionfalmente nel burrone.

Ma la Germania, madre matrigna dell’Eurozona, non era e non sembra affatto disposta neanche oggi a un bilancio fiscale europeo comune in cui le regioni più ricche si tassano per agevolare lo sviluppo di quelle più povere… Giusto o sbagliato che sia. «Tale prospettiva presupporrebbe, però, un’unione fiscale sotto l’egida tedesca. Da Berlino difficilmente potrebbe giungere il nullaosta al deficit spending, dal momento che sono talmente ossessionati dal debito da aver introdotto in Costituzione un freno all’indebitamento (il cd. Schuldenbremse), freno che è stato poco dopo esportato nella nostra Costituzione sotto il governo Bce-Monti, come se avessimo bisogno di essere tedeschizzati per essere credibili agli occhi dei mercati. […] Stephanie Kelton [scrive che] è necessario che l’Eurozona diventi uno Stato federale come gli Usa oppure che i singoli Stati membri tornino ad esercitare la piena sovranità monetaria».[4]

In altre parole, incalza la Kelton, manca un’attiva e sinergica cooperazione tra autorità monetarie e politiche, quelle dei rappresentanti legittimamente eletti.

Il peccato capitale dell’euro consiste proprio nell’aver reciso questo legame fondamentale. Per cui la Bce è un’autorità monetaria straordinariamente potente ma del tutto priva di legittimità che esautora le autorità politiche nazionali da qualsiasi controllo sulle leve di politica economica.

La soluzione, ancora una volta, resterebbe quella proposta anche da Draghi e da Visco con la trasformazione alchemica – se non magica tout court – dell’Unione Europea in uno Stato federale, con buona pace della Germania. Altrimenti non rimane che l’alternativa di restituire la sovranità monetaria alle singole nazioni europee.

A proposito dell’irreversibilità dell’euro invocata compulsivamente anche da Draghi (al netto del passaggio più o meno praticabile e ripetutamente quanto autorevolmente sottolineato verso un’Europa a trazione federale…) si segnala un intervento assai interessante di Giulio Tremonti,  risalente all’ottobre 2018.

Tremonti comincia ricordando il cosiddetto “Manifesto di Ventotene”, la madre di tutti i documenti dedicati alla costruzione della futura Unione Europea, redatto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni nel 1941 durante il periodo di confino fascista presso l’isola di Ventotene, perla dell’arcipelago delle isole Ponziane nel Mar Tirreno.

Quel lirico testo fondante della Ue, ricorda il ministro dell’Economia dell’ultimo governo Berlusconi, «intona il de profundis della sovranità statale: “gli Stati nazionali giaceranno fracassati al suolo”, recita testualmente. Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi sognano la fine dello Stato nazione, e non si riferiscono soltanto alla Germania nazista, all’Italia fascista e alla Francia petainista. Secondo tale visione, lo Stato in sé è causa di dittatura, guerra e negazione della democrazia, perciò Europa. Poi, nel 1957, i paesi fondatori sottoscrivono il Trattato di Roma, patto confederale tra Stati sovrani. Si pongono così le fondamenta dell’Unione europea: i paesi membri conservano la propria sovranità, anzi riservano a sé il potere d’imposizione fiscale e la gestione dell’acqua, e devolvono verso l’alto quanto necessario per realizzare il mercato comune. Nessuno nega la propria identità».[5]

Tuttavia nel 1992 a Maastricht, città olandese non particolarmente segnata da una buona stella dato che, come ricorda Tremonti, nel suo assedio, colpito alla gola da un colpo di moschetto il 25 giugno 1673 cadde combattendo Charles de Batz de Castelmore, conte d’Artagnan, capitano dei Moschettieri grigi, la cui figura avrebbe ispirato Alexandre Dumas per l’omonimo personaggio protagonista de I tre moschettieri, viene sottoscritto l’omonimo trattato.

Di cui tutti conosciamo il principale effetto collaterale, la nascita della moneta unica europea, ma non il dark side. Vale a dire la “vendetta di Spinelli” come la definisce lo stesso Tremonti, per restare in tema con la penna e lo stile di Dumas padre.

Si tratta del «ritorno del progetto federalista originario. Gli Stati conferiscono a Bruxelles una ragguardevole quantità di fondi nazionali, e Bruxelles provvede ad assegnarli direttamente alle regioni bypassando gli Stati. Gli “illuminati” pensano di fare politica con la moneta: “federate i loro portafogli, federerete anche i loro cuori”, oggi vediamo che non è andata esattamente così ma in aggiunta c’è l’altro lato del trattato, l’idea di smontare gli Stati con i soldi degli Stati. Il meccanismo ha funzionato male in Italia e benissimo in Spagna. Benissimo, si fa per dire: la Catalogna, rivitalizzata dall’Europa, rivendica verso la Spagna la sua originaria sovranità. Il caso catalano non è marginale: pensi alla Piccardia, alla Bretagna, alla Corsica…”».

È a questo punto che Annalisa Chirico domanda al presidente dell’Aspen Institute Italia se l’euro sia davvero irreversibile. Il giudizio di Tremonti è tranchant. «L’euro è stato ed è un caso unico nella storia, almeno per ora: una moneta senza governo e governi senza moneta, esso è considerato irreversibile. Dato che le parole hanno sempre un senso tremendo, quando usi la parola “irreversibile”, parti dall’assunzione opposta, che sia invece reversibile. Nessuno ti dice che il dollaro è irreversibile, lo si dice dell’euro non tanto perché c’è fiducia che esso ci sia quanto per la paura che non ci sia. Più in generale, nel mondo globale, è comunque sempre più difficile la permanenza di monete nazionali. Tra l’altro, dovresti giudicare chi le firma. In ogni caso, se l’euro è irreversibile, stare dentro l’euro vuol dire avere meno sovranità, piaccia o no, e più responsabilità comune. Le decisioni che assumi sul tuo debito incidono sul valore del risparmio di un ferroviere di Stoccarda».

Che l’Eurozona, rebus sic stantibus, sia piuttosto e al contrario una Neurozona o, per sfumare il concetto, una sorta di lame duck, un’anatra azzoppata, lo aveva sostenuto anche Giuliano Amato, docente di Diritto costituzionale comparato alla Sapienza di Roma per oltre 20 anni, nonché ex presidente del Consiglio e della Corte costituzionale, in un’intervista curiosamente non più disponibile sul web. Marco Mori ne ha riportato i punti salienti.[6]

L’esordio di Amato è con il botto. «Noi abbiamo fatto una moneta senza Stato, noi abbiamo avuto la faustiana pretesa di riuscire a gestire la moneta senza metterla sotto l’ombrello di un potere caratterizzato da quei metodi e quei modi che sono propri dello Stato e che avevano sempre fatto ritenere che fossero le ragioni della forza, della credibilità che ciascuna moneta ha. Eravamo pazzi? Qualche esperimento nella storia c’era Stato di monete senza Stato, di monete comuni, di unioni monetarie, ma per la verità non erano state molto fortunate».

Perché allora dotarsi di una moneta unica all’interno dei labili confini di una “unione” e non costruendo invece lo Stato europeo? La risposta appare a dir poco sconcertante: «abbiamo deciso che trasferire a livello europeo quei poteri di sovranità economica che sono legati alla moneta era troppo più di quanto ciascuno degli Stati membri era disposto a fare e allora ci siamo convinti e abbiamo cercato di convincere il mondo che sarebbe bastato coordinare le nostre politiche nazionali per avere quella zona, quella convergenza economica, quegli equilibri economici fiscali interni all’Unione Europea che servono a dare forza reale alla moneta. Non tutti ci hanno creduto».

Le obiezioni, con il senno di poi di livello tarzaniano (accessibile cioè al quoziente d’intelligenza di un uomo scimmia…), fioccarono subito, ricorda Amato. «Molti economisti, specie americani, ci hanno detto: “guardate che non ci riuscirete, non vi funzionerà, se vi succede qualche problema che investe anche uno solo dei vostri paesi non avrete gli strumenti centrali che per esempio noi negli Stati Uniti abbiamo [dove] può intervenire il governo centrale, [per] riequilibrare con la finanza nazionale le difficoltà delle finanze locali”». Come già ricordato, esattamente quello che la Germania non vuole e non ha mai voluto.

La banca centrale europea, prosegue l’ex presidente della Corte costituzionale, se non è una banca centrale di uno Stato non può assolvere alla stessa funzione che assolve una banca centrale statale «che, quando lo Stato lo decide, diventa il pagatore senza limiti di ultima istanza. In realtà noi non abbiamo voluto credere a questi argomenti abbiamo avuto fiducia nella nostra capacità di auto coordinarci e abbiamo addirittura stabilito dei vincoli nei nostri trattati che impedissero di aiutare chi era in difficoltà e abbiamo previsto che l’UE non assuma la responsabilità degli impegni degli Stati che la banca centrale non possa comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli Stati, che non ci possano essere facilitazioni creditizie o finanziarie per i singoli Stati, insomma moneta unica dell’eurozona ma ciascuno deve essere in grado di provvedere a se stesso. Era davvero difficile che funzionasse e ne abbiamo visto tutti i problemi».

Amato dixit

Il dark side dell’Unione Europea è stato sottolineato anche uno studioso al di sopra di ogni sospetto come Luigi Zingales, docente alla University of Chicagos Booth School of Business, a tempo perso editorialista de Il Sole 24 Ore e dell’Espresso.

In un articolo del 2018 apparso sull’autorevolissimo bimestrale statunitense Foreign Policy, già espressione del Carnegie Endowment for International Peace oe ra entrato nell’arsenale mediatico del Washington Post, Zingales apriva mettendo subito i punti sulle u: «Nel XX secolo quando il risultato elettorale non era gradito alla élite consolidata e ai suoi alleati internazionali, entravano in scena i carri armati. Nel XXI secolo la reazione è meo cruenta ma non meno soffocante. Invece dei carri armati si utilizza il mercato dei titoli (Rather than tanks, the bond market is used)»…[7]

Lo spunto per la messa a fuoco del docente della Chicagos Booth School of Business era stato innescato dalla decisione del presidente italiano Sergio Mattarella che nei giorni precedenti aveva bloccato il governo giallo-verde Conte-Salvini-Di Maio, che pur disponeva di una solida maggioranza parlamentare, per il timore delle reazioni dei mercati dinanzi alla nomina al dicastero dell’Economia dell’81enne Paolo Savona, con alle spalle un formidabile curriculum professionale. L’imperdonabile colpa di Savona, spiega Zingales, era quella «di avere preparato un piano di emergenza per un’uscita dall’euro, nel caso si dovesse giungere a tanto. Come se il presidente degli Stati Uniti avesse licenziato il ministro della Difesa per avere preparato con il suo staff un piano d’emergenza per una guerra nucleare con la Corea del Nord mentre avrebbero dovuto essere lodati per la loro capacità di essersi pronti a ogni evenienza».

Ammesso e non concesso che Mattarella avesse ragione a temere le reazioni del bond market e che avesse anche il diritto costituzionale di agire in quel modo, prosegue Zingales, la domanda sorge spontanea: è sensato ancorare la trincea delle decisioni politiche di un paese ai capricci dei mercati? In altre parole, la paura (il ricatto…) dei mercati deve prevalere sul processo decisionale democratico?

Per l’autore dell’articolo citato si tratta di una decisione politicamente ed economicamente pericolosa (both economically and politically dangerous)».

Economicamente, perché il mercato dei titoli di Stato contempla equilibri multipli, attentamente monitorati dalla Banca centrale locale. Ma non avere fornito alla Bce i necessari strumenti di intervento non è stato un caso o una inadeguatezza concettuale dei promotori della sua legge costitutiva bensì l’asse centrale di una precisa politica monetaria che aveva l’obiettivo di «consentire ai mercati di disciplinare i paesi membri (in order to let markets impose discipline on member countries). Ma questa è stata cattiva economia che ha costretto alla fine la Bce a intervenire massicciamente. Gli Stati membri così non sono stati disciplinati da un mercato che opera correttamente ma dalla Bce, un’istituzione composta da persone che, anche se intenzionate ad agire bene, possono sbagliare».

Il che conduce alle drammatiche e problematiche conseguenze politiche di tale pre-potente pre-potere dei mercati. Dal momento che qualsiasi meccanismo istituzionale che offre a un corpo non eletto come la Bce un dominio senza controllo sugli eletti dal popolo innesca ineludibili questioni di legittimità.

Zingales “immagina” il commento di un funzionario tedesco di vertice della Bce che accidentalmente innesca un tracollo del mercato dei titoli di Stato italiani. «Anche un paese meno affascinato da improbabili teorie cospirative comincerebbe a sospettare un complotto tedesco. E il sospetto diverrebbe una certezza se un commissario europeo tedesco dovesse dichiarare che i mercati finanziari sono in grado di insegnare agli italiani a non votare per i partiti populisti. Fortunatamente, questa è una questione meramente ipotetica. O anche no… Il commissario europeo al Bilancio Günther Oettinger questa settimana ha dichiarato di sperare che “lo sviluppo negativo dei mercati” fornisca “un segnale per non votare i populisti di destra o di sinistra”».

Un ricordo urticante per l’Italia. Come forse si ricorderà, infatti, in un’intervista rilasciata a fine maggio 2018 al giornalista Bernd Thomas Riegert della Deutsche Welle Oettinger aveva scommesso sul ruolo “educativo” che la finanza internazionale avrebbe potuto giocare nel suggerire agli italiani il comportamento corretto da adottare nelle future elezioni politiche. «I mercati e un outlook negativo insegneranno agli italiani a non votare per i partiti populisti alle prossime elezioni», era stata la sintesi delle parole dell’esponente Cdu veicolata su Twitter da Riegert.

Comunque lo si voglia vedere, si tratta di un quadro desolante che, per dirla con Zingales, evidenzia gli strutturali difetti progettuali dell’euro (fundamental design flaws of the euro).

E che non sono destinati a risolversi a breve sulle ali dei problematici entusiasmi per un Europa federale non proprio alle porte o per degli Stati Uniti d’Europa a cui l’ansia servile di un’improbabile omologia impedisce di scorgere le differenti e fondamentali esperienze storiche, culturali, linguistiche e sociali che corrono sulle due sponde dell’Atlantico. Lo Stato dell’Indiana, scrive Zingales, non si preoccupa della prodigalità dell’Illinois che può eleggere senza interferenze da parte dell’Indiana i suoi governatori perché esistono ammortizzatori federali in grado di gestire gli squilibri e assorbire gli shock mentre il Congresso, dove gli Stati minori sono addirittura sovrarappresentati, è in grado di regolare eventuali contenziosi.

Niente di tutto questo esiste o si profila all’orizzonte degli scenari europei. E non per caso.

Si tratta comunque di uno scenario che s’inserisce perfettamente nella storia dell’Italia e nelle carriere professionali dei bancari di altissimo livello che hanno gestito la parabola socio-economica del nostro paese.

Basterà ricordare, a titolo di esempio, la parte finale del discorso pronunciato da Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, alla Conferenza sulle Privatizzazioni tenutasi sul Britannia il 2 giugno 1992 in cui l’ex presidente della Bce trattò dello smantellamento della partecipazione statali, chiave vincente del boom economico italiano degli anni ’50 e ’60 e della svendita dei “gioielli di famiglia” del patrimonio statale nazionale.

Leggiamo con attenzione. «Lasciatemi concludere spiegando, nella visione del Tesoro, la principale ragione tecnica – possono esserci altre ragioni, legate alla visione personale dell’oratore, che vi risparmio – per cui questo processo decollerà. La ragione è questa: i mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’aggiustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni».[8] I corsivi sono nostri.

L’impoverimento inesorabile e progressivo dell’Italia parte in quegli anni, nel segno delle privatizzazioni, della moneta unica europea, del divorzio tra ministero del Tesoro e Banca d’Italia, dall’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione e tutto il resto.

Una parabola inversamente proporzionale ai successi della carriera professionale, nazionale ed eurocratica, di personaggi come Romano Prodi e Mario Draghi, grandi protagonisti, in buona e selezionata compagnia, di quella stagione…

 

[1] Europa, Cacciari: “Che Unione Europea è? Senza solidarietà non durerà”, La7, 20 novembre 2022, https://www.la7.it/nonelarena/video/europa-cacciari-che-unione-europea-e-senza-solidarieta-non-durera-20-11-2022-460859.

[2] Committee on Economic and Monetary Affairs Monetary. Dialogue with Mario Draghi, President of the European Central Bank, 23 settembre 2019, https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2019/html/ecb.sp190923_transcript~8dc7717fa5.mu.pdf.

[3] Reuters Staff, Euro può durare solo se zona euro diventa un unico stato – Visco, Reuters, 22 febbraio 2021, https://www.reuters.com/article/italia-visco-idITKBN2AM1ZF.

[4] A. Savini, Sovranità, debito e moneta, Torrazza Piemonte, e 2021, pag. 10-11. Per la citazione della Kelton cfr., S. Kelton, Il mito del deficit. La teoria monetaria moderna per uneconomia al servizio del popolo, Roma, 2020, pag. 14.

[5] A. Chirico, Leuro spiegato ai sovranisti, Il Foglio, 9 ottobre 2018, https://www.ilfoglio.it/economia/2018/10/09/news/leuro-spiegato-ai-sovranisti-217871/.

[6] M. Mori, Incredibile: Giuliano Amato ci svela la verità sulla crisi economica, Scenari economici, 4 luglio 2015, https://scenarieconomici.it/incredibile-giuliano-amato-ci-svela-la-verita-sulla-crisi-economica/.

[7] Luigi Zingales, Its Time to Choose Democracy Over Financial Markets, Foreign Policy, 31 maggio 2018, https://foreignpolicy.com/2018/05/31/italy-must-choose-democracy-over-financial-markets/.

[8] Mario Draghi, Privatizzazioni inevitabili, ma da regolare con leggi ad hoc”: il discorso del 1992 (ma attualissimo) di Mario Draghi sul Britannia, Il Fatto Quotidiano, 22 gennaio 2020, https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/01/22/britannia-la-vera-storia/5681308/.

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2 Commenti

  1. Luca

    Analisi storica dell’UE molto interessante

    Rispondi
  2. Gianluca

    Più leggo analisi strutturate e indipendenti come questa più mi chiedo se siamo vittima di aristocrazie venali che all’interno delle contraddizioni si arricchiscono a dismisura, oppure dei media asserviti a una narrazione univoca e complici delle malefatte delle sopramenzionate elites oppure ancora di noi stessi, silenti e distratti, incapaci di prendere in mano il nostro destino di popolo d’Europa

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