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Gaza e il Nagorno-Karabakh, i vasi comunicanti della geopolitica internazionale

Parte 2.

(…segue)

Il fatto, più prosaicamente, è che per Israele l’Azerbaigian è un grande asset strategico ed economico come fornitore privilegiato di petrolio nonché come strenuo alleato contro l’Iran, l’arcinemico di Israele. Senza contare il lucroso ruolo come cliente dei sofisticati e letali armamenti prodotti da Israele. «Non esistono ambiguità riguardo alla nostra posizione a sostegno della difesa dell’Azerbaigian», ha dichiarato l’ex ambasciatore di Israele in Azerbaigian, Arkady Milman. «Condividiamo una partnership strategica di contenimento dell’Iran».

La strana coppia

Sebbene Israele, un tempo disastrosamente scarso di risorse energetiche, disponga oggi di gas naturale in abbondanza grazie ai giacimenti scoperti al largo delle coste mediterranee, l’Azerbaigian fornisce ancora il 40% del fabbisogno petrolifero di Tel Aviv. Israele per le sue forniture energetiche si è infatti appoggiato alla fine degli anni ’90 ai giacimenti offshore di Baku, costruendo un oleodotto attraverso l’hub di trasporto turco di Ceyan penalizzando così l’Iran che, all’epoca, capitalizzava il flusso di petrolio che dal Kazakistan scorreva verso i mercati mondiali passando attraverso i suoi oleodotti.

Anche per questo Azerbaigian e Iran sono da tempo ai ferri corti, scambiandosi reciproche accuse. Baku non tollera il sostegno iraniano all’Armenia, paese di religione cristiana ortodossa, mentre Teharan accusa l’Azerbaigian musulmano di ospitare una base segreta per le operazioni di spionaggio israeliano dirette contro il governo e il territorio iraniano. Affermazioni che Azerbaigian e Israele hanno naturalmente negato. Ma che lasciano, allo stato dei comuni interessi geopolitici, il tempo che trovano. «Per noi è evidente che Israele ha interesse a mantenere una presenza militare in Azerbaigian, utilizzando il suo territorio per monitorare l’Iran», ha dichiarato il diplomatico armeno Tigran Balayan.

Economia e geopolitica sull’asse Baku-Tel Aviv

Il complesso militar-industriale israeliano è stato quello che più di ogni altro ha beneficiato delle relazioni con l’Azerbaigian al quale avrebbe fornito quasi il 70% del suo arsenale tra il 2016 e il 2020, dando all’Azerbaigian un formidabile vantaggio contro l’Armenia e stimolando la vitalità del settore hi-tech della difesa israeliana (Israel supplied Azerbaijan with nearly 70% of its arsenal between 2016 and 2020 — giving Azerbaijan an edge against Armenia and boosting Israels large defense industry), come accertato da Pieter Wezeman, ricercatore di grande esperienza presso lo Stockholm International Peace Research Institute, che monitora, tra l’altro, le vendite di armi.

Secondo Wezeman, i missili a lungo raggio e i droni esplosivi israeliani, noti come “loitering munitions” o droni suicidi, hanno compensato le ridotte dimensioni e capacità della forza aerea azera, colpendo in profondità il territorio dell’Armenia mentre i missili terra-aria israeliani Barak-8, prodotti dalle Israel Aerospace Industries e testati poco prima dell’offensiva, hanno sinergicamente protetto lo spazio aereo dell’Azerbaigian abbattendo i missili e i droni della rappresaglia armena. I velivoli a pilotaggio remoto israeliani, definiti dal ministero della Difesa azero «un incubo per l’esercito armeno», avevano già dato ottima prova nella precedente e sanguinosa guerra di sei settimane del 2020, neutralizzando con micidiale efficacia le difese armene e ribaltando l’equilibrio del conflitto.

Non a caso il presidente azero Ilham Aliyev nel 2021, un anno segnato da violenti scontri al confine tra Azerbaigian e Armenia, era stato immortalato mentre accarezzava con riconoscenza nel corso di una mostra di armi il piccolo drone israeliano Harop, lo stesso modello impiegato da Israele durante i raid dell’esercito contro i militanti palestinesi nella Cisgiordania occupata.

A conferma della stretta alleanza militare tra Israele e Azerbaigian, l’Associated Press ha accertato almeno sei voli della Silk Way Airlines azera atterrati all’aeroporto di Ovda tra il 1° e il 17 settembre da Baku, secondo quanto riportato dal sito web di monitoraggio dell’aviazione FlightRadar24.com. Durante quel periodo di sei giorni, un aereo da trasporto militare Ilyushin Il-76 di fabbricazione russa ha sostato sulla pista di Ovda per diverse ore prima di partire per Baku o Ganja, la seconda città del paese, poco a nord del Nagorno-Karabakh. L’Azerbaigian ha lanciato la sua offensiva due giorni dopo (Azerbaijan launched its offensive two days later).

Ma non è tutto. A marzo, un’inchiesta del quotidiano israeliano Haaretz ha reso noto di aver contato nel periodo 2016-2020 ben 92 voli cargo militari azeri presenti all’aeroporto di Ovda. Un’impennata dei voli che ha coinciso con l’intensificarsi degli scontri etnici in Nagorno-Karabakh. «Durante la guerra del 2020, abbiamo registrato voli ogni due giorni e ora, di nuovo, osserviamo la stessa intensità di voli che ha portato all’attuale conflitto», ha dichiarato all’Associated Press Arman Akopian, ambasciatore armeno in Israele. «Per noi è ben chiaro che cosa sta succedendo».

Tel Aviv e Baku hanno rifiutato ogni commento. Scrive la Debre: «La decisione di sostenere un governo autocratico contro una minoranza etnica e religiosa ha acceso un furioso dibattito in Israele sulle politiche permissive di esportazione di armi del paese. Tra i primi dieci produttori di armi a livello globale, solo Israele e la Russia non hanno restrizioni legali sulle esportazioni di armi basate su problemi di diritti umani».

Gli altri otto si limitato a esportare comunque, senza farsi eccessivi problemi procedurali.

Il conflitto in Ucraina

Sin qui i nessi e i connessi che, all’alba dello scoppio del conflitto a Gaza, hanno messo insieme, secondo opposte strategie e desiderata, player geopolitici di diversa caratura internazionale: Azerbaigian, Armenia, Nagorno-Karabakh, Russia, Israele, Turchia e Iran. Intrecci che si riallineano e si ripresentano più o meno caoticamente insieme con l’entrata in scena dell’asso di bastoni planetario, gli Stati Uniti.

Se Russia e Iran, per diversi o convergenti motivi, non hanno mai visto di buon occhio nello scenario potenzialmente esplosivo del Caucaso l’intervento da protagonista di Israele e men che meno i regolari e anche recenti bombardamenti dell’aviazione militare israeliana in Siria, feudo del fedele alleato Assad, garante di un equilibro delicato e fondamentale a cavallo tra regione caucasica e Medioriente, per completare lo scenario contemporaneo non può infatti mancare l’attuale conflitto in Ucraina.

Anche qui per comprendere, prima di giudicare più o meno assennatamente, conviene inforcare le lenti della geopolitica per uscire dalle liti e dalle bagarre delle risse da stadio.

Come i bombardamenti israeliani sulla Siria non sono figli di un’incoercibile pulsione militarista di Tel Aviv ma sono lo strumento per interrompere la pipeline di riferimento di armi che dall’Iran arriva in Siria per poi diramarsi nel Libano degli Hezbollah e nei terrori palestinesi controllati da Hamas, così le guerre e le tensioni che agitano e sconvolgono la periferia della Federazione Russa sono il frutto di ben calcolate, precise e da tempo studiate strategie statunitensi.

La dottrina Brzezinski

Ancora una volta dobbiamo rifarci a Zbigniew Brzezinski (1928-2017), politico democratico statunitense di origini polacche, consigliere per la Sicurezza nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter, dal 1977 al 1981, famoso per la dottrina omonima che attraverso un uso sapientemente coniugato di soft e hard power intendeva prima minare fino alla frammentazione definitiva l’ordine geopolitico sovietico per puntare poi a frammentare la Russia post-sovietica in tre esangui monconi, uno europeo, uno siberiano e uno asiatico. L’isolato spezzone russo, sarebbe così stato minimizzato al rango di potenza locale e secondaria.

Nel testo prima citato, abbiamo affrontato il problema del declinarsi della “dottrina Brzezinski” nell’ambito del conflitto che oggi lacera il cuore dell’Europa. La cui posta si scrive Ucraina, ma che si dovrebbe leggere “Eurasia”. È questo infatti il vero obiettivo del conflitto che si combatte sulle rive del Dnepr, nel cuore dell’Europa centrale. Il cui obiettivo principale è il controllo dell’Eurasia, la Heartland descritta dal geografo politico Halford Mackinder.

In relazione all’Eurasia come baricentro del potere globale, nel 1997 nel suo saggio The Grand Chessboard. American Primacy and Its Geostrategic Imperatives (La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici), Brzezinski descrive la formulazione di una geostrategia statunitense in forza della quale non debba e non possa emergere alcun sfidante in grado di dominare quella massa continentale e sfidare così la supremazia statunitense a livello mondiale. Circa il 75% della popolazione mondiale (Brzezinski scriveva nel 1997) vive in Eurasia dove si concentra anche la maggior parte dei beni materiali del pianeta, sia sotto forma di produzione sia di risorse minerarie. Qui si concentra il 60% del Pil mondiale, circa tre quarti delle risorse energetiche conosciute e gli Stati politicamente più influenti e dinamici.

Dopo gli Stati Uniti, le sei maggiori economie e i sei maggiori investitori in armamenti si trovano in Eurasia. Tutte tranne una delle potenze ufficialmente in possesso di testate nucleari si trovano in quel supercontinente. A complicare le cose, i due demograficamente più rilevanti aspiranti all’egemonia regionale, entrambi intenzionati a esercitare un’influenza globale, sono euroasiatici come lo sono i potenziali sfidanti politici e/o economici della supremazia statunitense. Complessivamente, la potenza eurasiatica supera di gran lunga quella dell’America. Fortunatamente per lei, l’America, l’Eurasia è troppo grande per essere politicamente unita.

Lucidamente Brzezinski, il cui ruolo di fine e lungimirante stratega nessuno può ignorare, scrive che l’Eurasia essendo il più vasto continente del globo è assiale ai suoi stessi equilibri geopolitici. Ne consegue che la maniera in cui gli Stati Uniti sapranno gestire questa vastissima fetta di mondo assume caratteri critici. «Una potenza in grado di dominare l’Eurasia controllerebbe due delle tre regioni del mondo più avanzate ed economicamente produttive. Una semplice occhiata a un mappamondo evidenzia che il controllo dell’Eurasia determinerebbe quasi automaticamente la subordinazione dell’Africa, rendendo l’Emisfero occidentale e l’Oceania periferici rispetto al centro continentale del mondo (rendering the Western Hemisphere and Oceania geopolitically peripheral to the worlds central continent)».[i]

Si tratta del Great game del XXI secolo che vede l’Europa fare la parte della mosca cocchiera degli interessi atlantici, visto il suo inguaribile nanismo politico che le ha impedito di valutare i suoi stessi interessi e di impegnarsi attivamente per evitare che le tensioni intraeuropee potessero arrivare al punto di lacerazione estremo del conflitto. A tutto vantaggio degli interessi geostrategici eurasiatici dell’Impero del sole calante.

(continua…)

 

[1] Z. Brzezinski, op. cit., pag. 31.

[1] Z. Brzezinski, The Grand Chessboard. American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, New York, 1997, pag.149.

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