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Gaza e il Nagorno-Karabakh, i vasi comunicanti della geopolitica internazionale

Parte 1.
Le ore infuocate di Israele

Parapendio a motore usati come micidiali “tappeti volanti”, gommoni, moto e fuoristrada equipaggiati con mitragliatrici pesanti sul modello del Long Range Desert Group britannico, un diluvio di missili… L’attacco sferrato da Hamas contro Israele a partire dalla Striscia di Gaza sembra portare inequivocabilmente, per preparazione, coordinamento, addestramento ed equipaggiamento, la firma delle truppe speciali dei pasdaran, le Guardie della rivoluzione iraniana.

Come mai proprio ora, proprio adesso e proprio in Medioriente?

Per comprendere la drammatica situazione internazionale è necessario alzare il tiro, allargare la visione complessiva alzando la visuale, come un drone geopolitico, oltre il punto di vista di un’interpretazione rasoterra. Per cercare una lettura che abbandoni gli orpelli ideologici e grottescamente infantili di quanti intendono solo, per pre-giudizio ideologico o per tornaconto personale, attribuire pagelle di dubbia qualità ed efficacia, dividendo l’infernale contesto tra “buoni” e cattivi”. Ignorando le “ragioni” e l’eziologia di una crisi che, come sempre, parte da lontano.

E questo vale da una parte e dall’altra. Senza pretendere di aver individuato la smoking gun della molto più che drammatica crisi esplosa in Mediorente, ufficialmente tra Hamas e Israele, vale la pena di segnalare un nesso fuggito ai commentatori che mette in relazione l’ultimo atto della guerra tra palestinesi e israeliani, con i loro relativi alleati, e le tensioni esplose di recente nel Nagorno-Karabakh.

Come detto le cause del conflitto mediorientale sono diverse e complesse. Ma non è difficile rintracciare un imprevedibile legame con quello che arde, più o meno sotto traccia, nel Caucaso.

La guerra in Nagorno Karabakh

Partiamo, onde evitare squalifiche “complottiste”, da una fonte insindacabile nel panorama del politicamente corretto. Tra il 4 e il 5 ottobre 2023, nell’immediata vigilia della tempesta abbattutasi su Israele e Gaza Il Sole 24 Ore ha dedicato due articoli al cocktail esplosivo del conflitto che oppone Azerbaigian e Armenia per il controllo del Nagorno-Karabakh, coinvolgendo direttamente Israele, Iran e Russia.

Per una migliore comprensione, è necessario un breve riepilogo.

Il Nagorno Karabakh, Artsakh in lingua armena, è una regione geografica del Caucaso meridionale, geofisicamente attinente all’Altopiano armeno, estesa quanto l’Umbria, al centro di una feroce disputa territoriale tra l’Azerbaigian, che ne controlla de iure la sovranità, e l’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, a maggioranza demografica armena, dichiaratasi indipendente nel 1991, alla fine della prima guerra del Nagorno Karabakh tra Azerbaigian e Armenia.

Come sappiamo, il 19 settembre 2023 l’Azerbaigian ha scatenato una travolgente offensiva militare nel Nagorno Karabakh, imponendo il disarmo delle forze armate della Repubblica dell’Artsakh e provocando l’esodo forzato e quasi completo dei 120mila armeni dall’enclave. Anche perché gli azeri sono legati all’ideologia del nazionalismo panturco, lo stesso responsabile delle stragi degli armeni vittime, dalla primavera del 1915 all’autunno del 1916, di un genocidio pianificato. Oggi questo dramma continua e i suoi artefici, gli azeri sostenuti dal governo turco di Erdogan e dalle armi di Israele, «ne sono i responsabili, animati dalla stessa ideologia nazionalista panturca che durante la Prima guerra mondiale animava il partito dei Giovani Turchi, responsabile dell’eliminazione fisica di un milione e mezzo di armeni su 1 milione e 800mila che vivevano allora all’interno dell’impero ottomano».[1]

L’operazione militare con cui l’Azerbaigian dopo trentacinque anni ha ripreso il controllo del Nagorno-Karabakh è suscettibile di produrre conseguenze di enorme portata sia per il Caucaso sia per il destino dell’Armenia, obiettivo di una possibile futura,“riconquista” imperiale russa, scriveva Carolina De Stefano sul Sole 24 Ore il 4 ottobre 2023. «L’accordo tra Baku e Erevan che in pochi giorni ha portato al ritiro tanto delle forze armene quanto di quelle delle autorità locali pro-armene, in effetti, non è, come molti l’hanno definito, un “cessate il fuoco”, ma molto più semplicemente la resa dell’Armenia di fronte all’Azerbaigian. L’Artsakh, come gli armeni chiamano questa regione situata in Azerbaigian dal 1921 e la cui popolazione è a stragrande maggioranza armena, non esiste più. Esisterà invece una regione pienamente reintegrata dell’Azerbaigian, privata della sua componente armena, e alla quale forse (ma forse no) verrà lasciato un certo grado di autonomia».[2]

La Russia e la gestione post sovietica

La grande novità però è la politica adottata dal Cremlino, che ha abbandonato il ruolo di arbitro super partes svolto dall’inizio del conflitto nel 1988 tra Armenia e Azerbaigian. In estrema sintesi, Mosca ha lasciato che i suoi 2.000 peacekeeper sul territorio per monitorare la situazione non muovessero un dito mentre l’Azerbaigian bloccava senza alcuna ragione plausibile il corridoio di Lachin, dal 2020 sotto il controllo delle forze armate di Mosca, che collega l’Armenia alla regione separatista.

Invece di opporsi alla patente violazione degli accordi di pace da parte del governo di Baku garantendo il passaggio di cibo e medicinali, i soldati russi, sottolinea la De Stefano, sono rimasti con le armi al piede a osservare passivamente il degradarsi inesorabile della situazione nel Nagorno. L’emergenza umanitaria conseguente ha permesso così all’Azerbaigian di affrontare militarmente una popolazione ormai stremata e disposta a cedere le armi. Neanche la morte accidentale di alcuni peacekeeper russi sotto i colpi dell’artiglieria azera, ha suggerito a Mosca di uscire dal suo strumentale torpore, dimostrando palesemente di non volere entrare in conflitto con l’Azerbaigian e facendo successivamente sapere di riconoscere il nuovo status quo, vale a dire la sovranità di Baku sull’enclave armena.

Il cambio di passo della Russia disegna un salto di paradigma dalle pesantissime implicazioni. Alla luce sopratutto del conflitto in Ucraina e della nuova prassi geopolitica adottata da Mosca per risolvere lo sciame sismico dei contenziosi etnico-nazionalisti ereditati direttamente dall’esplosione dell’ex impero sovietico.

Schierandosi senza se e senza mai a fianco dell’Azerbaigian, il Cremlino ha voluto mettere definitivamente la parola fine a quel conflitto “congelato” forse per ridurre la dispersione emorragica delle sue forze armate in tutti i delicati e pericolosi flashpoint che corrono lungo i suoi confini. Ricordiamo che i flashpoint sono gli esplosivi e sotto traccia “punti d’innesco” di crisi geopolitiche dalle ripercussioni potenzialmente devastanti. «Nel rinunciare al suo ruolo “sovietico” di garante delle relazioni tra paesi dell’ex Urss, la Russia entra in una fase nuova. Per tre decenni Mosca ha trattato le ex repubbliche come il suo giardino di casa (l’”estero vicino”) e continuato a gestire problemi esistenti dal crollo sovietico in maniera inerziale, da “post-impero”, tra cui il Nagorno. Ora, invece, sta prendendo forma davanti ai nostri occhi e per la prima volta una vera e propria politica estera russa apertamente aggressiva nei confronti di tutte le ex repubbliche sovietiche e non solo dell’Ucraina».

La cecità dell’Europa

Resterebbe da chiedersi se da questo punto di vista, si possa considerare vincente e sensata la politica estera ed economica occidentale – in particolare quella dell’Europa – incardinata sullo scontro frontale con la Russia. O se invece sarebbe stato meglio, molto meglio, per le sorti europee e del mondo intero, non sdraiarsi a pelle di leone di fronte ai, legittimi, interessi geostrategici statunitensi che non possono, stante la semplice esistenza dell’Oceano Atlantico, sovrapporsi in maniera indolore e incruenta a quelli dell’appendice occidentale dell’Eurasia affacciata su Medioriente e Africa.

In altre parole non era forse necessario collaborare attivamente e per tempo con l’ingombrante vicino euroasiatico russo, potentissimo quanto disponibile fornitore di energia a basso costo, aiutandolo a gestire i fardelli determinati dal crollo dell’impero sovietico invece di ottemperare ai per noi suicidi ukase d’oltre Atlantico…?

Avere costretto la Russia a rafforzare controllo e influenza sui propri vicini allargando i confini della Nato, nonostante le promesse fatte a Gorbaciov di non espandersi nemmeno di “un pollice” in direzione Est al fine di ottenere il suo assenso alla riunificazione tedesca, appare sempre più una decisione idiota con lampi di cretinismo.[3]

Dopo la Bielorussia, sottolinea la De Stefano, «è il turno dell’Armenia, da sempre l’altro vicino più vulnerabile di Mosca, e che ora lo è a maggior ragione: con un governo nazionale annientato dalla perdita del Nagorno-Karabakh e decine e decine di migliaia di russi che nell’ultimo anno e mezzo si sono installati a Erevan. Per questa ragione, sostenere che con la fine della contesa per il Nagorno-Karabakh la Russia ha perso peso nel Caucaso è più che prematuro, nonostante l’influenza crescente di Turchia e altri attori nella regione».

Già, gli altri attori attivi nella regione…

Il ruolo di Israele nel Caucaso

Il giorno dopo l’articolo citato, Il Sole 24 Ore allargava la comprensione del quadro di situazione, svelando retroscena di notevole spessore geopolitico.

L’articolo traduceva le analisi di alcuni funzionari ed esperti interpellati dall’Associated Press, secondo i quali Israele aveva occultamente sostenuto la campagna dell’Azerbaigian per la riconquista del Nagorno-Karabakh, fornendo armi prima della fulminea offensiva del mese scorso che ha riportato l’enclave armena sotto il controllo azero (Israel has quietly helped fuel Azerbaijans campaign to recapture Nagorno-Karabakh, supplying powerful weapons to Azerbaijan ahead of its lightening offensive last month).[4]

L’analisi, firmata a Tel Aviv da Isabel Debre, segnalava che poche settimane prima che l’Azerbaigian lanciasse il 19 settembre il suo blitz-krieg, secondo i dati di tracciamento aeronautici e secondo quanto riferito da diplomatici armeni, aerei cargo militari azeri aveva fatto ripetutamente la spola tra un campo d’aviazione situato nei pressi del Nagorno-Karabakh e una base aerea nel sud d’Israele, a Ovda, dotata di una pista di atterraggio lunga 3.000 metri, nota come l’unico aeroporto in Israele che gestisce l’esportazione di esplosivi. Tutto questo mentre i governi occidentali sollecitavano colloqui di pace tra le parti in causa.

La rivelazione aveva colto di sorpresa e gravemente preoccupato i funzionari armeni di Erevan, da tempo assai guardinghi nei confronti dell’alleanza strategica sempre più stretta e palese tra Israele e Azerbaigian, ma aveva soprattutto messo in luce gli interessi strategici di Israele nella turbolenta regione incastrata a sud delle montagne del Caucaso (shined a light on Israels national interests in the restive region south of the Caucasus Mountains).

Il blitz del settembre 2023 condotto dall’Azerbaigian con artiglieria pesante, lanciarazzi e droni, secondo gli esperti forniti in gran parte da Israele e Turchia, come sappiamo ha costretto le autorità separatiste armene a deporre le armi e a sedersi con un ginocchio a terra al tavolo dei negoziati sul futuro della regione.

Le conseguenze di quella guerra apparentemente periferica vanno ben oltre l’instabile enclave, scrive la Debre. I combattimenti hanno spinto oltre 100mila persone, oltre l’80% dei residenti armeni, a intraprendere un esodo forzato per evitare di rimanere vittima di vessazioni o addirittura di operazioni di pulizia etnica. Anche se l’Azerbaigian si è impegnato a rispettare i diritti dell’etnia armena.

Dal canto loro, i ministeri degli Esteri e della Difesa israeliani hanno rifiutato di commentare sia l’uso di armi israeliane nel conflitto sia le preoccupazioni armene sulla vera o presunta partnership militare con l’Azerbaigian. Anche se a luglio il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha visitato Baku, la capitale dell’Azerbaigian, dove ha elogiato la cooperazione militare e la comune “lotta al terrorismo” dei due paesi.

Il fatto, più prosaicamente, è che per Israele l’Azerbaigian è un grande asset strategico ed economico come fornitore privilegiato di petrolio nonché come strenuo alleato contro l’Iran, l’arcinemico di Israele. Senza contare il lucroso ruolo come cliente dei sofisticati e letali armamenti prodotti da Israele. «Non esistono ambiguità riguardo alla nostra posizione a sostegno della difesa dell’Azerbaigian», ha dichiarato l’ex ambasciatore di Israele in Azerbaigian, Arkady Milman. «Condividiamo una partnership strategica di contenimento dell’Iran».

(continua…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] M. Inverizzi, Il genocidio armeno continua…, Alleanza Cattolica, 9 ottobre 2023, https://alleanzacattolica.org/il-genocidio-armeno-continua/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=Armeni.

[2] C. De Stefano, In Nagorno-Karabakh inizia la nuova politica estera di Mosca, Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2023, https://www.ilsole24ore.com/art/in-nagorno-karabakh-inizia-nuova-politica-estera-mosca-AF515a4.

[3] Cfr., G. Peroncini, Ucraina: la Dottrina Brzezinski”, Milano, 2022.

[4] Cfr., Isabel Debre, Israeli arms quietly helped Azerbaijan retake Nagorno-Karabakh, to the dismay of regions Armenians, Associated Press, 5 ottobre 2023, https://apnews.com/article/armenia-azerbaijan-nagorno-karabakh-weapons-israel-6814437bcd744acc1c4df0409a74406c.

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