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Why not?

A 36 anni dalla morte – 19 maggio 1987 – Fausto Biloslavo ricorda Almerigo Grilz

“Why not?”, perché no, usava dire Almerigo nelle situazioni più impensabili, quando si trattava di mangiare una brodaglia ammuffita fra i ruderi di Beirut, non essendoci altro da mettere in pancia, o davanti all’obbligato travestimento musulmano, con tanto di turbante e lunghe tuniche, per entrare clandestinamente nell’Afghanistan occupato dall’Armata rossa. “Why not” divenne un motto, che assieme a Gian Micalessin ci portò a viaggiare in mezzo mondo raccontando la cosiddetta “pace” degli anni ottanta, guerre terribili e spesso dimenticate, ultimi bagliori dello scontro senza quartiere fra le superpotenze prima del crollo del muro di Berlino. Oggi tornato di tragica attualità con l’invasione dell’Ucraina.

Per me era un fratello maggiore, un compagno d’avventura all’inizio del percorso romantico e affascinante del giornalismo di guerra partito da Trieste. Almerigo era il migliore di noi a tal punto che riuscì ben presto a scrivere in inglese per il Sunday Times e le immagini che filmava andavano in onda sui più grandi network televisivi americani. Pure in patria si difendeva con memorabili reportage sull’Europeo, ma firmati con pseudonimo perchè era stato un dirigente del Fronte della gioventù, la parte sbagliata per fare carriera nel giornalismo nostrano. Stesso copione su Panorama: l’odierno presidente del Circolo della stampa di Trieste, allora corrispondente del settimanale dal capoluogo giuliano, inviò addirittura una lettera alla direzione per non farci scrivere perchè “uomini neri”. Sandro Ottolenghi, capo degli Esteri di Panorama (la sua famiglia aveva patito il regime fascista ed i campi di concentramento) ci disse: “Vi giudicherò solo per i reportage che mi portate, per quello che scrivete, fotografate e raccontate”.

Altra stoffa, come Reporters Sans Frontières e gli organizzatori di uno dei più prestigiosi premi in Europa per i reportage di guerra a Bayeux, dove ricordano Almerigo come tutte le altre vittime sul fronte dell’informazione senza chiedersi se fosse di destra o di sinistra. In mezzo al verde della periferia della prima cittadina francese liberata dagli alleati dopo lo sbarco in Normandia, di fronte al cimitero di guerra inglese, si stagliano una selva di lapidi bianche alte come un uomo, che segnano il percorso della memoria. Tanti parallelepipedi, divisi solo per anno, dal 1944 a oggi. Nel marmo sono incisi i nomi di oltre duemila giornalisti caduti nelle guerre dal D-Day in poi. Il primo italiano è Almerigo Grilz e trovare il suo nome sul marmo bianco è stato un tuffo al cuore.

La stessa emozione che provo rileggendo i suoi ultimi appunti: “La sveglia è chiamata poco dopo le 5. (…) Fa freddo, l’erba è umida e c’è una nebbiolina brinosa tutto attorno. Riteniamo opportuno iniziare la giornata con un sorso di whisky, che fa l’effetto di una fiammata in gola”. Almerigo lo scriveva il 18 maggio 1987 sul suo diario di guerra in Mozambico. “In pochi minuti la colonna è in piedi. I soldati, intirizziti nei loro stracci sbrindellati raccolgono in fretta armi e fardelli. (…) Il vocione del generale Elias (…) li incita a muoversi: “Avanza primera compagnia! Vamos in bora!”. In no time siamo in marcia”. Per Ruga, il suo nomignolo, sarà l’ultimo giorno di reportage. All’alba del 19 maggio, il proiettile di un cecchino gli trapasserà la nuca mentre filmava la scomposta ritirata dei guerriglieri della Renamo respinti dai governativi nell’attacco alla città di Caia. Grilz è il primo giornalista italiano caduto in guerra dopo la fine del secondo conflitto mondiale. E quella mattina, inconsapevole di andare incontro al proiettile con il suo nome, avrà detto seguendo i guerriglieri in battaglia: “Why not?”.

 

 

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