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L’Ucraina, la Merkel e le bugie dalle gambe corte…

A Gianfranco Peroncini, autore di Ucraina: la “Dottrina Brzezinski” (Byoblu, 2022), chiediamo di spiegarci le ricadute delle sconvolgenti dichiarazioni dell’ex cancelliera tedesca Angela Merkel a proposito delle origini della guerra in Ucraina.

Che cosa ne pensa delle rivelazioni della Merkel?

Mendacium pedes non habet… La morale della nota favola di Fedro in italiano viene liberamente tradotta con “le bugie hanno le gambe corte”. Una sintesi giornalistica che ben si può adattare anche all’epocale fake news degli Accordi di Minsk, prodromo inevitabile dell’attuale conflitto che lacera il cuore dell’Europa. È quanto si evince dalla testimonianza dell’ex cancelliera tedesca Angela Merkel.

Facciamo un passo indietro e spieghiamo di che cosa si tratta.

Gli accordi del Protocollo di Minsk II, sottoscritti l’11 febbraio 2015 tra i capi di Stato di Ucraina, Russia, Francia e Germania, ufficialmente disegnavano un’intesa per porre fine alla guerra allora più o meno sotto traccia nell’Ucraina orientale con il ritorno all’ovile delle regioni ribelli di Doneck e di Lugansk, in cambio di una maggiore autonomia. Gli accordi non furono mai rispettati e i combattimenti continuarono in maniera sempre più intensa. Da allora il Donbas è rimasto una zona di scontro armato, dove sino allo scoppio del conflitto tra Mosca e Kiev erano morte più di 13mila persone, tra militari, paramilitari e civili, mentre moltissime famiglie avevano dovuto abbandonare le case.

A questo punto cadono come una bomba le parole della Merkel

In un passaggio dell’intervista pubblicata dal settimanale Zeit il 7 dicembre 2022, la Merkel ha dichiarato: «Gli accordi di Minsk sono serviti a dare tempo all’Ucraina. […] Tempo che ha usato per rafforzarsi, come possiamo vedere oggi. L’Ucraina del 2014-2015 non era l’Ucraina di oggi. Come abbiamo visto all’inizio del 2015 durante i combattimenti intorno a Debaltsevo [una città del Donbass, Oblast di Donetsk], Putin avrebbe potuto vincere facilmente. E dubito fortemente che all’epoca la Nato sarebbe stata in grado di aiutare l’Ucraina come lo è oggi… Era ovvio per tutti noi che il conflitto sarebbe stato congelato, che il problema non era risolto, ma questo ha solo dato tempo prezioso all’Ucraina».[1] In altre parole, in spregio sia alle regole diplomatiche sia all’onestà delle relazioni internazionali, Angela Merkel rivela che gli accordi di Minsk, che avrebbero dovuto avviare un processo di pace nella regione, sono invece solo serviti a preparare machiavellicamente la guerra, dando tempo all’Ucraina di armarsi e difendersi. Intendiamoci, come ammonisce il biblico Ecclesiaste, niente di nuovo sotto il sole.

In che senso?

Si tratta di una rivisitazione, mutatis mutandis, della lettura in filigrana del famoso e forse ingiustamente famigerato accordo di Monaco del 1938, definito una capitolazione della democrazia nei confronti del totalitarismo nazista, voluto dal primo ministro britannico Neville Chamberlain, in folle ansia bulimica di appeasement. In realtà, una lettura più attenta disegna un quadro alternativo assai diverso. E cioè che l’intesa bavarese fornì un decisivo anno di tempo in più agli Alleati per prepararsi, militarmente, politicamente ed economicamente alla guerra contro Hitler. Esattamente come nel caso dell’Ucraina che, come sostiene la Merkel, se fosse stata invasa nel 2015 sarebbe stata spazzata via.

Quali le reazioni allo scoop dello Zeit?

Una sola, a mio avviso, ma significativa. Al netto di queste considerazioni, e proprio alla luce di «una testimone d’eccezione» come la Merkel, Massimo Nava sul Corriere della Sera scopre una verità evidente, vale a dire che per spiegare politicamente la genesi della guerra in Ucraina non basta la narrazione basata sulla distinzione tra aggredito e aggressore, che può fornire un’immagine distorta del conflitto: «La narrazione comunemente condivisa dell’aggredito e dell’aggressore, della vittima e del carnefice, serve a una comprensione etica della guerra in Ucraina, ma non a spiegare politicamente la genesi del conflitto, che poteva essere almeno contenuto».[2]

È importante che uno dei quotidiani più venduti d’Italia riconosca la fragilità intrinseca di uno dei capisaldi dell’accomodata e accomodante narrazione mainstream del conflitto tra Russia e Ucraina, basata sulla diade aggressore/aggredito, declinata secondo la versione che sottolinea come dal 24 febbraio 2022 uno Stato sovrano e indipendente, quello ucraino, si trova alle prese con i bombardamenti e gli attacchi di uno Stato aggressore, quello russo. Per cui l’aiuto dell’Occidente non è solo generoso ma pure dovuto. Anche se…

Anche se…?

A meglio riflettere, quanti si trovano in assonanza con questo ragionamento sembrano peccare o di coerenza o di memoria. A questa stregua – seguendo cioè il filo della stessa logica – l’Europa avrebbe dovuto rifornire di armi i talebani dell’Afghanistan, Stato sovrano e indipendente, quando era alle prese con i bombardamenti e gli attacchi di uno Stato aggressore (gli Stati Uniti). Parimenti, avrebbe dovuto agire e reagire allo stesso modo anche con il governo dell’Iraq di Saddam Hussein, Stato sovrano e indipendente, quando era alle prese con i bombardamenti e gli attacchi di uno Stato aggressore (quello di prima). Appare dunque evidente, se non lapalissiano, che non è questa la condizione necessaria e sufficiente, la conditio sine qua non, adottata dalle cancellerie occidentali per stabilire le condizioni inappellabili di un bellum iustum. Una guerra “giusta”.

Evidentemente c’è qualche cosa che non quadra in questa narrazione. Come ha spiegato in poche, sanguinose, parole Angela Merkel. Rivelando, urbi et orbi, che il re è nudo… Inutile e fuori luogo, d’altra parte, stracciarsi le vesti. Come hanno fatto, strumentalmente, dalle parti del Cremlino.

Perché?

I grandi conflitti non sono mai ideologici bensì geopolitici. Coinvolgendo strategie, tattiche, pianificazioni, manipolazioni e provocazioni, tutte studiate in vista di obiettivi di ben più ampio spazio, respiro e dimensioni rispetto sia a quelli dei protagonisti locali direttamente interessati sia a quelli alla portata immediata degli interessi, delle aspirazioni e delle reazioni psichiche dell’opinione pubblica nazionale e internazionale.

A questo proposito, nell’Appendice di Ucraina: la Dottrina Brzezinski”, si analizza un progetto del Council on Foreign Relations (Cfr) negli anni del secondo conflitto mondiale, il War and Peace Studies Project, di cui quasi nessuno ha mai sentito parlare.

Anche se svela un passaggio a dir poco epocale che mostra esattamente il nesso che lega i conflitti del XX e del XXI secolo nella trama e nell’ordito di un percorso storico, politico e socio-economico “obbligato”, dettato dalle linee guida di una volontà di potenza che non intende riconoscere ostacoli o limiti.

Di che cosa si tratta?

Tutto nasce da una segnalazione di Noam Chomsky che lo cita in un libro del 1982, Towards a new cold war, facendo finta di stupirsi che nessun professionista dell’informazione storica ne parli. In poche parole, si manda in frantumi la favoletta ammannita in tutte le salse possibili – libri, corsi e lezioni di Storia, dalle elementari all’università, romanzi, fumetti, film, serie tv, canzonette, fotoromanzi e tele novelle – secondo cui gli Alleati avrebbero combattuto la Seconda guerra mondiale, in Italia, in Europa e nel Pacifico, per sostenere la buona battaglia della libertà e della democrazia.

E invece…?

Allo scoppio della guerra, il Cfr, formidabile think tank geopolitico privato statunitense, lanciò il progetto di un formidabile rapporto econometrico, il più articolato, esteso e complesso mai tentato prima in tutto il mondo. Il globo venne scomposto all’interno di una griglia divisa in aree strategiche e per ognuna vennero accuratamente calcolati produzione, commercio e trasporto di ogni materia prima e di ogni bene industriale. Nel quadro venne considerato praticamente il 95% dell’insieme degli scambi internazionali di materie prime e prodotti lavorati e semilavorati.       La risposta apparve drammatica per gli scenari futuri auspicati e previsti dal Council on Foreign Relations: l’autosufficienza di un’Europa continentale dominata dalla Germania sarebbe stata di gran lunga più solida di quella di entrambe le Americhe. Lo studio fu tenuto riservato e presentato solo alla Casa bianca. Il Council fece pervenire a Roosevelt un memorandum segreto che riassumeva i dati di realtà analizzati e il quadro di situazione conseguente che dettava un ambito strategico che imponeva l’accesso ai mercati e alle materie prime dell’Europa, dell’impero britannico e delle colonie della Francia e dell’Olanda.

Che cosa accadde poi nel concreto?

Dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel dicembre del 1941, all’indomani di Pearl Harbor, tra il Cfr e il Dipartimento di Stato si registrò un’interpenetrazione a tutti i livelli con l’entrata di personalità di spicco del Council negli enti, nelle amministrazioni, nelle agenzie e negli organismi federali destinati a gestire e coordinare lo sforzo bellico e a pianificare il dopoguerra. Da quel momento, la marcia del War and Peace Studies Project proseguì inarrestabile.

Che lezioni trarre?

È un’anamnesi storica che ci conferma, come detto, che i grandi conflitti non sono mai ideologici bensì geopolitici. Come rivediamo nella trama profonda dell’attuale guerra tra Russia e Ucraina, combattuta per procura degli Stati Uniti, con l’Europa a rimorchio. Sullo sfondo del Great Game per il controllo dell’Eurasia.

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3 Commenti

  1. mauro melchionda

    Sempre puntiglioso e chiaro G. Peroncini.
    Questo articolo, con l’apporto dell’intervista di Angela Merkel e dello scritto dell’editorialista del Corsera Massimo Nava, conferma che la guerra non si può ridurre all’assioma “aggredito e aggressore” Il mondo occidentale ha le sue grandi responsabilità e queste devono essere chiare a tutti.

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  2. Luca

    Analisi chiarissima e condivisibile. Le responsabilità dell’occidente sono troppo spesso taciute e chi prova ad approfondire viene subito accusato di filoputinismo con questo ponendo fine a qualunque doverosa analisi

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  3. Anonimo

    La Geopolitica muove il mondo e pochi lo capiscono

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