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Le dimissioni di Mario Draghi ? Un trionfo della democrazia

Dal New York Times a Ottoemezzo

Le dimissioni di Mario Draghi sono state un trionfo della democrazia.

Questo volta la grande eresia, pura blasfemia mercatista e mercantile, non viene da ambienti guevaristi fascio-comunisti, di stretta osservanza populista e sovranista. Ma, udite udite, dal ben più che accreditato e autorevole New York Times. E adesso vagliela a spiegare a Lilli Gruber e Gianni Riotta, a Furio Colombo e Mario Monti, a Carlo De Benedetti e Romano Prodi.

Scopriamo subito chi è il destabilizzante whistleblower, in buon italiano, il bambino della fiaba I vestiti nuovi dellimperatore di Hans Christian Andersen che esclama, in mezzo alla folla plaudente e servile, «Il re è nudo…!» smascherando così l’evidente impostura dei tessitori imbroglioni da tutti accettata per supina piaggeria. Si tratta di Christopher Caldwell, collaboratore del quotidiano newyorchese e del Financial Times.

In un articolo apparso sul prestigioso quotidiano liberal nel luglio 2022, Caldwell declina organicamente il suo pensiero, più o meno condivisibile – a seconda delle logge o delle parrocchie di appartenenza – ma difficilmente criticabile come assurdo, partendo dal giorno delle dimissioni di Draghi da Palazzo Chigi.

Per i partigiani del suo governo, dell’Unione Europea e dell’economia globalizzata, spiega l’importuno whistleblower, l’ormai ex premier era diventato un simbolo di stabilità democratica nel mezzo di tempestose turbolenze economiche e di laceranti tensioni politiche. Da questa specifica angolazione, la partenza di Draghi, a causa dello sfilarsi dalla maggioranza di tre partiti del suo governo, appariva presagio di catastrofi ulteriori.

Non a caso una newsletter della JPMorgan, formidabile corporation multinazionale di servizi finanziari con sede a New York, ha descritto le manovre parlamentari che hanno portato alla caduta di Draghi come un «colpo di Stato populista».

L’anatema del più grande istituto bancario al mondo fu il preludio allo scatenamento emetico e incoercibile di tutta la stampa domestica più “venduta” sulla base di un petroso sillogismo alla luce del quale, dato che l’ex presidente della Bce aveva sostenuto nel suo stile whaterver it takes le sanzioni contro la Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina, ne conseguiva sinteticamente che i suoi oppositori non potevano essere altro che filo-putiniani, al soldo dei rubli di Gazprom e del Cremlino.

È a questo punto che Caldwell getta la sua devastante pietra d’inciampo socio-politica. «Ma c’è un aspetto bizzarro riguardo al ruolo di Draghi come simbolo di democrazia, cioè il fatto che nessun elettore ha mai inserito nell’urna un voto con il suo nome. Venne nominato per uscire da un vicolo cieco politico ai primi del 2021 per decisione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, anch’egli non eletto direttamente. Per quanto autorevole e capace, le dimissioni di Draghi rappresentano un trionfo della democrazia, almeno alla luce di quello che il termine democrazia ha sempre tradizionalmente rappresentato (his resignation is a triumph of democracy, at least as the word democracy has traditionally been understood)».[i]

L’editorialista del New York Times è ormai un fiume in piena, toccando corde e argomenti assai sgraditi alla vulgata economically correct. Cominciando con il ricordare un aspetto nevralgico dei governi tecnici tanto cari al Quirinale di ogni recente stagione politica, vale a dire che «il problema dell’Italia è che i suoi governi ora servono due padroni: l’elettorato e i mercati finanziari globali (Italys problem is that its governments now serve two masters: the electorate and global financial markets). E quale sia il potere prevalente per l’Arlecchino di turno a Palazzo Chigi appare evidente.

Forse (sic) questo è vero per tutti i paesi dell’economia globale, aggiunge Caldwell. But it is not how democracy is supposed to work, non è così che dovrebbe funzionare la democrazia, specifica. Senza comunque raggiungere orecchie sia collinari sia pertinenti alla “palude” parlamentare o mediatica.

L’Italia, incalza, si trova in una situazione particolare che aggrava in maniera inesorabile il danno. Con un debito pubblico sopra il 150% del prodotto interno lordo, il calo demografico e i tassi di interesse in aumento, l’Italia si trova intrappolata in una moneta comune europea che la svantaggia e non le permettere di svalutare per rilanciare le esportazioni, ridando slancio alla sua economia (Italy is trapped in a common European currency that it cannot devalue).

Il tutto contribuisce a produrre una situazione insostenibile di continuo commissariamento esterno. «In diverse occasioni la politica ordinaria italiana è stata sospesa e governi “tecnici” come quello di Draghi sono stati chiamati a decidere misure di emergenza. Ciò significa che il governo italiano ascolta meno i cittadini anche se poi impone loro grandi sacrifici e adeguamenti impopolari» sottolinea il ricercatore statunitense.

Inevitabile la svolta “populista” dell’elettorato italiano che Caldwell definisce il terzo grande choc politico anti-sistema della metà del decennio scorso, dopo la Brexit e l’elezione di Trump nel 2016. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso, si potrebbe aggiungere.

Non a caso, il primo governo Conte, quello giallo-verde che vedeva insieme i due schieramenti populisti di sinistra e di destra, il Movimento 5 Stelle e la Lega, era nelle sue parole wildly popular, incredibilmente popolare. Il che fece dell’Italia, ulteriormente, un sorvegliato speciale in Europa.

Quando l’emergenza pandemica costrinse la Bce a intervenire con finanziamenti massicci, nemmeno il fatto di un nuovo governo Conte, questa volta più allineato lungo le linee di minor residenza mainstream grazie all’alleanza con il Pd di Enrico Letta, convinse le aristocrazie venali a fidarsi riguardo alla buona destinazione dei 200 miliardi del Pnrr assegnati all’Italia. E così quando l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, definito da Caldwell «business-friendly»…, fece cadere l’esecutivo venne dato vita a un nuovo governo di unità nazionale, un esperimento di laboratorio che includeva tutti i partiti tranne Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, un esecutivo e una maggioranza prostrati in adorazione di Mario Draghi, l’unico a godere della credibilità per rassicurare i mercati nella “oculata” gestione e destinazione finale dei miliardi del Recovery fund.

La quanto mai problematica, anche se non del tutto imprevista…, reverenza dell’establishment nazionale nei confronti del titolatissimo bancario (e non banchiere, come erroneamente si usa dire) e del suo governo, definito curiosamente “dei migliori”, non solo in ambito politico ma anche sul versante mediatico, è venuta clamorosamente alla ribalta nella puntata del 22 novembre 2022 nel programma Otto e mezzo, condotto da Lilli Gruber su La7.

Il tema era quello del rapporto tra stampa e potere, innescato dallo scambio di battute tra i cronisti che partecipavano alla conferenza stampa sulla legge di bilancio e la premier Meloni. Quest’ultima, pressata da altri impegni, avrebbe voluto andarsene prima di rispondere a tutte le domande, scatenando le proteste dei giornalisti ai quali la Meloni, con una battuta, rimproverò atteggiamenti assai meno aggressivi tenuti nei confronti del presidente dell’esecutivo precedente.

Sarebbe bastato molto meno per scatenare le dure quanto puntualissime e inesorabili critiche della Federazione nazionale della stampa e dell’Associazione stampa parlamentare che stigmatizzarono il comportamento della Meloni, rivendicando la tutela della libera informazione, del dovere di rispondere alle domande e di non liquidare con insinuazioni dietrologiche (…?) i giornalisti che cercano solo di ottenere risposte…

Comunque sia, fiutando l’odore del sangue del nemico come uno squalo in frenesia alimentare, la Gruber chiede un commento a Marco Travaglio, ospite in collegamento della trasmissione. Il direttore del Fatto Quotidiano non si fa pregare.

L’inizio pare incoraggiante. Dichiarando che i politici non devono parlare dei giornalisti in quanto è bensì giusto il contrario e che quando vogliono dare voti, lezioni e pagelle all’informazione non fanno altro che farla fuori dal vaso.

Poi Travaglio cambia decisamente accento. «Certamente se la Federazione della stampa fosse intervenuta quando il presidente Draghi fece la conferenza stampa del 21 dicembre 2021 e fu applaudito quando entrò, per alcune sue risposte e anche quando uscì, spiegando ai colleghi che non erano lì per applaudirlo ma per fare delle domande e cercare di mettere in difficoltà il presidente del Consiglio, probabilmente non ci sarebbe questo vittimismo della Meloni, che segnala comunque nervosismo e forse stanchezza…».[ii] I corsivi sono nostri

La Gruber lo incalza ma viene respinta con perdite: «i giornalisti dovrebbe avere maggiore rispetto di se stessi e quindi evitare di applaudire come si fa nella Corea del Nord di  Kim Jong-un il presidente del governo “dei migliori”. Se lo avessero evitato non si noterebbe la differenza. Perché quello che è successo oggi è la fisiologia nelle democrazie, giornalisti che fanno domande per mettere in difficoltà un potente. Ci eravamo disabituati da un anno e mezzo». La disabitudine a un’informazione e a una politica non “sdraiata” nei confronti del potere, anzi del Potere, di cui parlava Travaglio era ben spiegata da Caldwell nella sua analisi sulla situazione italiana.

In una democrazia, infatti, la credibilità deriva unicamente, giusto o sbagliato che sia, da un mandato popolare, ricorda il giornalista statunitense. Al contrario, «in un “governo tecnico”, la credibilità deriva dai collegamenti con banchieri, autorità di regolamentazione e altri addetti ai lavori (in a technical government,” credibility comes from connections to bankers, regulators and other insiders). Quando un personaggio con la posizione di Mario Draghi assume l’incarico di governare un paese, diventa piuttosto difficile capire se è la democrazia che chiede aiuto alle istituzioni finanziarie o se viceversa sono le istituzioni finanziarie ad avere messo la democrazia con le spalle al muro (it can be unclear whether democracy is soliciting help from financial institutions or whether financial institutions have backed democracy into a corner)».

In altre parole, secondo il quotidiano statunitense, in una democrazia la credibilità viene dal popolo, in un governo tecnico dai banchieri…

Per corroborare la sua posizione, Caldwell cita il caso di un consulente di UniCredit che, nelle more della caduta del governo Draghi, aveva posto una “ipotetica” domanda alla Bce: se le future elezioni italiane saranno vinte dal centrodestra e i mercati cominceranno a vendere i titoli del debito italiano, quale sarà l’atteggiamento della Bce? A quanto pare, i tecnocrati che gestiscono il rischio finanziario finiscono per considerare come “rischio” la stessa democrazia (The risk” that technocratic risk managers are managing may be democracy itself)».

Secondo Caldwell, c’è un sottotesto implicito in tutta la manovra che ha portato Draghi al governo. In “buona” compagnia…

Il piano di aiuti europeo intende spingere l’Italia a un ulteriore piano di riforme turbo-liberiste. In cambio, Bruxelles ha ottenuto un potere decisionale ancora più ampio sulla politica nazionale. Sinora Roma ha ottenuto 46 miliardi. Il resto arriverà solo se farà bene i compiti a casa. In buona sostanza, agli italiani è stato detto: potete avere i fondi per salvare il paese solo Draghi è il vostro primo ministro, altrimenti scordateveli (You can have the money to rescue your country if Mr. Draghi is your prime minister, Italians were essentially told, but otherwise not).

La “deriva” populista è tutta qui. Dato che lo Stato italiano ha volontariamente abdicato a gran parte dei suoi poteri nei confronti degli eurocrati di Bruxelles e non ha più quindi il controllo degli strumenti di politica economica che potrebbero innescare un’azione efficace e decisiva per affrontare il problema del debito pubblico incrementando lo sviluppo e non limitandosi alla macelleria sociale dei tagli di spesa.

Problemi che cominciano ad affacciarsi anche dalle parti della Germania, dove la pacchia dei tre pilastri collegati al suo strapotere economico – energia a basso costo, immensi flussi di export e spese per la difesa delegate agli Stati Uniti – sono andati tutti a carte quarantotto.

Date le circostanze, conclude Caldwell, «inutile andare a scovare trame populiste, putiniane o irrazionali nei timori relativi alle conseguenze per la democrazia».

Caldwell e New York Times dixerunt

[i] C. Caldwell, Mario Draghis Fall Is a Triumph of Democracy, Not a Threat to It, New York Times, 27 luglio 2022, https://www.nytimes.com/2022/07/27/opinion/italy-draghi-populism.html.

[ii] YouTube, Otto e Mezzo La7 – puntata 22 novembre 2022, https://www.youtube.com/watch?v=TA15Ow-bT4s.

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3 Commenti

  1. Anonimo

    Assolutamente chiaro tutto

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  2. Luca

    Sempre sostenuto

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  3. Simone Andre Manelli

    Analisi impeccabilmente lucida ed ineccepibile, come sempre.
    Graziw

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