Seleziona una pagina

La guerra in Ucraina, l’ennesimo fallimento dell’Unione europea

Gianfranco Peroncini è autore di Ucraina: la «Dottrina Brzezinski». Prima della guerra: geopolitica e disinformazione nel conflitto tra Russia e Ucraina (Byoblu edizioni) …

I referendum in Donbass e la mobilitazione parziale annunciata da Putin. Perché l’escalation del Cremlino?
La vicenda bellica ucraina è una questione ancora molto fluida e in pieno divenire. Tuttavia è possibile avanzare qualche riflessione.
Appare evidente che Mosca ha deciso un cambio di passo per non farsi soffocare in un pantano inestricabile modello Vietnam/Afghanistan, scenario fortemente voluto da Stati Uniti e Nato.
Con il riconoscimento ufficiale di entità politico-territoriali di una parte dell’Ucraina abitate per lo più da popolazioni russofone e russofile la Russia rompe gli indugi e investe di una luce tagliente le zone d’ombra del conflitto, lasciandosi alle spalle l’ipotesi di creare una fragile e pericolosa zona cuscinetto di separazione tra Nato e territorio russo.
I referendum hanno avuto esito positivo perché la popolazione filo-Kiev è da tempo fuggita da quelle zone mentre due milioni di civili del Donbass erano riparati in Russia. Resta il fatto che con l’annessione di quei territori sul piano militare la situazione si semplifica e si irrigidisce nello stesso tempo. Drammaticamente.
A questo punto infatti la risposta a un attacco non più contro regioni secessioniste ma contro il territorio della Federazione russa rientra nella dottrina della difesa nazionale che, come previsto in tutti i paesi del mondo, prevede qualunque tipo di risposta. Cioè con qualunque tipo di arma di distruzione, anche non necessariamente nucleare…
Con questa mossa Mosca ha lasciato allo scoperto i governi europei che intendevano giocare a rimpiattino nelle fog of war di una guerra/non guerra.
L’obiettivo di Putin non è allargare il conflitto quanto alzare la posta per la Nato e l’Occidente. L’iniziativa russa lancia un avvertimento preciso agli ambigui governi europei: «Noi siamo pronti a difendere queste terre in quanto territorio russo. Voi siete pronti a fare la guerra alla Russia per strapparle questi territori?».
Con il Donbass ufficialmente russo, chi attaccherà quel territorio attaccherà infatti il territorio della Federazione russa, esponendosi a una risposta che non esclude nessun tipo di arma. Un’ipotesi che non esclude l’utilizzo di armi atomiche tattiche. Come d’altra parte gli Stati Uniti non hanno mai escluso tale eventualità nella crisi con la Corea del Nord.

La mossa di Putin è da inquadrare nella controffensiva ucraina delle recenti settimane?
Trattando dell’avanzata ucraina alcuni accreditati analisti come Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, hanno segnalato come apparisse strano che i russi avessero lasciato in quella regione solo due battaglioni e non si fossero accorti della concentrazione di sette brigate nemiche.
Successivamente i russi non hanno nemmeno provato a tamponare la breccia. Forse una scelta precisa, forse una carenza dei mezzi necessari.
I russi hanno così perso un terreno pari a mezzo Piemonte ma hanno accorciato le loro linee di difesa, concentrandosi sui territori che da sempre costituiscono il focus dell’operazione speciale lanciata il 24 febbraio 2022: Donbass e la striscia di terra che lo collega alla Crimea.
Gli ucraini intendono continuare il tentativo di liberare le aree occupate ma non possono farlo senza massicci rifornimenti di armi per sostenere le offensive. Tuttavia gli eserciti occidentali non hanno quasi più nulla da offrire senza un coinvolgimento diretto.
Come detto, Mosca ha dunque rivolto un duro monito ai paesi europei, che stanno perdendo tutto in una guerra che minaccia la nostra stessa sicurezza.
L’Europa è infatti mancata come soggetto geopolitico sin da prima della guerra e si è sempre limitata a seguire il carro di Washington e della Nato. Putin ha messo i leader europei di fronte alla realtà di quello che appare sempre più un obiettivo fondamentale della guerra: la distruzione del primato dell’Europa come potenza economico-industriale.
La Russia ne uscirà logorata ma l’Europa i rischia nei mesi prossimi una devastazione economico-industriale senza precedenti. Il bombardamento atomico tattico reale, infatti, si sta già abbattendo sulla pelle delle famiglie e dell’economie dell’Europa. Come in Italia sappiamo bene.
Ecco perché si è votato in tutta fretta con una campagna elettorale senza precedenti svolta sotto gli ombrelloni e con le infradito ai piedi, prima cioè che venissero recapitate alle famiglie le nuove bollette energetiche…
Se questa è la realtà, diventa tassativo operare attivamente per una pace negoziale e negoziata. Altrimenti l’Europa cesserà di essere una potenza economica e industriale. E dovremmo solo rassegnarci a chiederci chi ci avrà guadagnato.
D’altra parte, il recente atto di sabotaggio eco-terrorista che ha fatto esplodere in diversi punti le tubature del Nord Stream 1 e 2 nel Mar Baltico, al largo delle coste di Danimarca e Svezia, un’area non neutrale ma sotto lo stretto controllo dell’intelligence e delle marine militari occidentali, sembra essere una feroce risposta ai referendum in Donbass. Che avviene dopo che qualche giorno prima la Confindustria tedesca, insieme a imprenditori e politici, aveva chiesto un deciso cambio di passo nei confronti della catastrofe energetica provocata dalle sanzioni alla Russia.
Anche se la stampa mainstream non ha esitato da subito ad accusare grottescamente Mosca di quella apocalisse ecologica. Senza chiedersi che interesse avrebbe la Russia a sabotare se stessa, cioè un’infrastruttura che le è costata miliardi di euro e l’ha arricchita sino al momento di quel criminale sabotaggio? Tanto più che le falle disperdono in mare preziosissime riserve energetiche (non rinnovabili) della stessa Federazione Russa.
D’altro canto, lo stesso Corriere della Sera riporta che Tucker Carlson di Fox News ha mandato in onda una clip del 7 febbraio 2022, in cui Biden avvertiva Putin: in caso d’invasione dell’Ucraina da parte della Russia «il Nord Stream 2 cesserà di esistere»…

Il tuo libro è incentrato su quella che definisci come la “Dottrina Brzezinski”. Di che si tratta?
Partiamo da una premessa. Nel corso di tutte le invasioni subite nel corso degli ultimi tre secoli della sua storia, la Russia si è sempre salvata grazie alla sua profondità strategica.
L’obiettivo principale dei suoi nemici è stato quello di conquistare Mosca, come passo preliminare necessario anche se non sufficiente. Non solo prima dell’arrivo del cosiddetto “generale inverno” ma anche prima che le piogge autunnali trasformassero le strade in inestricabili trappole di fango.
Per questo la Russia ha la necessità strategica di mantenere il punto di partenza di un attacco il più lontano possibile dalle sue frontiere occidentali e utilizzare le sue forze armate non per fermare il nemico quanto per ritardare al massimo la sua avanzata. Quanto detto disegna il valore strategico fondamentale dell’Ucraina per la Russia. Se Kiev entra nella Nato, Mosca sarà a meno di 500 chilometri dalle forze attaccanti.
Per questo la Russia, come qualsiasi altro Stato, non può non dimostrarsi estremamente sensibile per quanto riguarda attività militari straniere organizzate lungo i suoi confini. Pensate quale sarebbe la reazione degli Stati Uniti se il Messico decidesse di aderire a un’alleanza militare guidata dalla Cina, ospitando manovre congiunte con l’esercito cinese e con armi puntate su Washington.
Si dice che la Nato, in realtà, non avrebbe nessuna intenzione di invadere la Russia. La questione, in realtà, appare piuttosto complessa.
In quanto improbabile non è mai sinonimo di impossibile.
Ma anche a voler prendere per buona questa intenzione, in ambito geopolitico niente è più relativo delle buone intenzioni di cui, come si dice, è lastricata la strada per l’inferno.
Da questo punto di vista, i diritti degli Stati sovrani passano sempre in secondo se non in ultimo piano a fronte della necessità di garantire la sicurezza nazionale.
Questa è la realtà nuda e cruda.
Gli argomenti morali, più o meno ipocriti, s’infrangono contro le ineludibili realtà geopolitiche.
Alla luce di quanto esposto, sulla scorta della prassi secolare del balance of power consolidata dall’impero britannico di cui ha ereditato lo scettro di egemonia planetaria all’indomani della Seconda guerra mondiale, Washington ha la necessità di impedire sulla penisola europea, propaggine occidentale dell’Eurasia, il dominio di una singola potenza. Il conflitto in Ucraina è tutto qui.La Russia radica la sua sicurezza nella distanza.
Per gli Stati Uniti, bloccare la risposta di Mosca in Ucraina, facendo combattere la guerra all’esercito di Kiev, fornendo armi e la copertura di una guerra economica parallela, appare come un formidabile e sapiente gioco di prestigio giocato sulla pelle dell’ultimo soldato ucraino e su quella economica dei popoli europei.

Ma in tutto questo come si inserisce la “Dottrina Brzezinski”?
È presto detto. In un’ottica più allargata tutto ci riporta al concetto dell’Ucraina come “perno geopolitico” fondamentale descritto da Zbigniew Brzezinski (1928-2017) politico democratico statunitense di origini polacche, consigliere per la Sicurezza nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter.
Secondo quanto pubblicato da Brzezinski nel 1997 nel suo saggio The Grand Chessboard. American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, l’Ucraina indipendente dal 1991 «è un nuovo e importante spazio dello scacchiere euroasiatico» senza il quale la Russia cessa di essere un impero euroasiatico per limitarsi forzatamente alle sue prospettive asiatiche, e finire inesorabilmente inghiottita dai debilitanti conflitti dell’Asia centrale.
La visione geostrategica di Brzezinski si dimostra estremamente lineare ed è stata pienamente condivisa dall’amministrazione Clinton, dall’amministrazione Bush, dall’amministrazione Obama e oggi dal pensiero neocon 2.0 incarnato dall’amministrazione Biden. Nel mondo post Guerra fredda sotto il controllo geostrategico statunitense, l’Ucraina si staglia, a fianco di Azerbaijan e Uzbekistan, come lo Stato «che merita il più forte sostegno geopolitico americano (deserving America’s strongest geopolitical support)». E dal momento che l’indipendenza ucraina condiziona lo status globale della Russia, il paese diventa per Washington «l’entità statale più critica» tra i perni chiave del sistema geopolitico eurasiatico.
Quello che preme è comprendere che il tassello Ucraina, per quanto fondamentale, s’inserisce in una logica di U.S. primacy che lo trascende, traguardando nel Grand Chessboard planetario la posta in gioco molto più importante e decisiva dell’Eurasia.
Lucidamente Brzezinski, il cui ruolo di fine e lungimirante stratega nessuno può evitare di riconoscergli, scrive che l’Eurasia essendo il più vasto continente del globo è assiale agli equilibri geopolitici planetari.
Ne consegue che la maniera in cui l’America saprà gestire questa amplissima fetta di mondo assume caratteri critici. «Una potenza in grado di dominare l’Eurasia controllerebbe due delle tre regioni del mondo più avanzate ed economicamente produttive».
La chiave di lettura più importante e immediata della guerra odierna tra Russia e Ucraina si legge in filigrana in queste pagine del 1997.
La Russia infatti, assume il ruolo di «un attivo player geostrategico».
In parole più semplici, la Russia sta cercando di riconquistare la sua egemonia regionale e il suo status di potenza a livello internazionale ma i suoi interessi, per questo stesso fatto, si trovano in diretta rotta di collisione con quelli statunitensi.
Se dunque la guerra con l’Ucraina si può spiegare con la volontà di potenza di Mosca nella riconquista del suo status di impero eurasiatico, per ciò stesso quel conflitto si trasforma in una più ampia contesa per il controllo dell’Eurasia, duramente conteso dalla volontà di potenza, diseguale e contraria, dell’Impero del sole calante.
Il controllo dell’eurasian geopolitical pivot ucraino è dunque un programma ben chiaro nelle strategie del Dipartimento di Stato sino dalla seconda metà degli anni ’90.
In sintesi, la guerra che abbiamo sotto gli occhi si scrive in chiaro Ucraina ma si deve leggere Eurasia. Vale a dire la massa continentale dove si concentra la maggior parte della popolazione del pianeta, insieme a quella delle sue risorse naturali e delle sue attività economiche. Per dirla con le brutali ma oneste parole di Brzezinski, un chessboard, una scacchiera strategica fondamentale e decisiva per riaffermare anche nel secolo appena cominciato la supremazia statunitense.

Mi sembra che il tuo approccio alla crisi ucraina sia prevalentemente geopolitico.
Esatto. È l’unica opzione possibile per uscire dall’insopportabile narrazione di una società culturale che da tempo ha passato lo stato liquido per entrare trionfalmente quanto irreversibilmente in quello gassoso.
Un modello quello adottato nei confronti del conflitto ucraino che i giurassici come me hanno imparato a conoscere dai tempi dei fumetti di quello che allora si chiamava Nembo Kid, e oggi Superman, il super-eroe che si confrontava con bad guy, “cattivi”, sempre alla ricerca della conquista del mondo.
Da allora poco è cambiato nella comunicazione.
D’altra parte, è dai tempi delle guerre puniche che, curiosamente, sono sempre e solo gli sconfitti a commettere crimini di guerra. Il che, dal solo punto di vista statistico, appare quanto meno bizzarro. Questo perché la storia resta materia viva, un attualissimo strumento di potere. Egemone è chi impone la propria versione dei fatti.

Specifichiamo meglio.
Le cause primarie e secondarie, remote e immediate, del recente conflitto in Ucraina sono un ineludibile convitato di pietra del panorama storiografico contemporaneo che può essere approcciato solo alla luce delle categorie della geopolitica. Un metodo di ricerca scientifica che distilla le sue coordinate dalla geografia, dalla storia, dall’economia, dalla sociologia, dall’etnologia e dalla demografia, per estrarre le linee guida di potenza delle nazioni, condensandole in razionalità non emotive o passionali. Senza cioè dare patenti di buona o cattiva condotta.
In questa chiave quello che preme, soprattutto, è non ribaltare i termini della questione rovesciando in maniera grottesca l’infantile discrimine tra buoni e cattivi con relativa riattribuzione dei ruoli quanto di scorgere, alla luce di fatti inequivocabili e non manipolabili, le volontà di potenza dei diversi protagonisti, lasciando poi al lettore la decisione di un’eventuale scelta di campo.
Questa è la geopolitica, bellezza…
Avendo sempre ben chiaro che il flashpoint geopolitico ucraino si disegna sulle coordinate dell’obiettivo strategico del controllo dell’Eurasia attraverso la posta tattica dell’Ucraina, vaso di coccio in mezzo a vasi in ferro, per dirla con il Manzoni.
Il conflitto attuale, infatti e come viene argomentato nello studio, ha una posta in gioco tattica, l’Ucraina, ma una prospettiva strategica molto più ampia. Da cui, l’inesorabile pianificazione conseguente di cui il bulimico allargamento della Nato in direzione Est è solo la punta dell’iceberg, l’aspetto più visibile e traumatico.
Una guerra che dimostra l’ennesimo fallimento dell’Unione europea che ha fatto strame di un progetto assai più logico e del tutto incruento in cui, l’Ucraina, uscita dalla morsa dell’impero sovietico, avrebbe dovuto diventare un ponte tra Est e Ovest e non una trincea geografica, ideologica ed economica tra la Russia e l’Europa occidentale.
Secondo Lucio Caracciolo, direttore ed editore di Limes, la più prestigiosa rivista di geopolitica italiana, il pecc

In questa chiave quello che preme, soprattutto, è non ribaltare i termini della questione rovesciando in maniera grottesca l’infantile discrimine tra buoni e cattivi con relativa riattribuzione dei ruoli quanto di scorgere, alla luce di fatti inequivocabili e non manipolabili, le volontà di potenza dei diversi protagonisti, lasciando poi al lettore la decisione di un’eventuale scelta di campo.
Questa è la geopolitica, bellezza…
Avendo sempre ben chiaro che il flashpoint geopolitico ucraino si disegna sulle coordinate dell’obiettivo strategico del controllo dell’Eurasia attraverso la posta tattica dell’Ucraina, vaso di coccio in mezzo a vasi in ferro, per dirla con il Manzoni.
Il conflitto attuale, infatti e come viene argomentato nello studio, ha una posta in gioco tattica, l’Ucraina, ma una prospettiva strategica molto più ampia. Da cui, l’inesorabile pianificazione conseguente di cui il bulimico allargamento della Nato in direzione Est è solo la punta dell’iceberg, l’aspetto più visibile e traumatico.
Una guerra che dimostra l’ennesimo fallimento dell’Unione europea che ha fatto strame di un progetto assai più logico e del tutto incruento in cui, l’Ucraina, uscita dalla morsa dell’impero sovietico, avrebbe dovuto diventare un ponte tra Est e Ovest e non una trincea geografica, ideologica ed economica tra la Russia e l’Europa occidentale.
Secondo Lucio Caracciolo, direttore ed editore di Limes, la più prestigiosa rivista di geopolitica italiana, il peccato originale dell’Ucraina si concreta in quel pendolo che oscilla, sfibrante, tra le marche eurorientali intese come vitali canali di comunicazione e scambio fra Russia ed Europa e i loro precipitare nella tragica dimensione di trincea e antemurale dello “scontro di civiltà” fra universi condannati a essere incompatibili.

Nell’Appendice del tuo libro parli di un progetto del Council on Foreign Relations negli anni del secondo conflitto mondiale, il War and peace studies project, di cui quasi nessuno ha mai sentito parlare. Perché è importante?
È un passaggio a dir poco epocale che mostra esattamente il nesso che lega i conflitti del XX e del XXI secolo nella trama e nell’ordito di un percorso storico, politico e socio-economico “obbligato”, dettato dalle linee guida di una volontà di potenza che non intende riconoscere ostacoli o limiti.
Tutto nasce da una segnalazione di Noam Chomsky che lo cita in un libro del 1982, Towards a new cold war, facendo finta di stupirsi che nessun professionista dell’informazione storica ne parli. Come avviene, sottolinea, tutte le volte che qualche evidenza documentale manda in frantumi la vulgata consolidata.

In poche parole, di che cosa si tratta…?
La bella favoletta che viene ammannita in tutte le salse possibili – libri, corsi e lezioni di Storia, dalle elementari all’università, romanzi, fumetti, film, serie tv, canzonette, fotoromanzi e tele novelle – è che gli Alleati, con particolare riferimento alla fazione statunitense, abbiamo combattuto la Seconda guerra mondiale, in Italia, in Europa e nel Pacifico, per sostenere la buona battaglia della libertà e della democrazia.
Ma le cose non stanno esattamente così.
Uno dei punti di collegamento principali tra il primo e il secondo atto della Guerra di successione britannica si evidenzia nella costituzione del Council on Foreign Relations, Cfr, che avrebbe assunto un ruolo decisivo sin dalla vigilia della Seconda guerra mondiale.
Tutto era nato nel corso della Conferenza di pace di Parigi che si aprì il 18 gennaio 1919 e continuò, con alcuni intervalli, sino al 21 gennaio 1920. Quell’assise, organizzata dai paesi vincitori della Prima guerra mondiale, aveva di fronte il delicato e complesso compito di ridisegnare la mappa geopolitica dell’Europa, e quindi del mondo, e di preparare i conseguenti trattati “di pace” con le Potenze centrali uscite sconfitte dal conflitto.
Fu subito chiaro che il compito era di gran lunga superiore alle competenze messe in campo dalle delegazioni all’opera composte, alla rinfusa e senza una calibrata selezione preventiva, da economisti, geografi, militari, diplomatici e uomini d’affari.
Un gruppo di delegati britannici e statunitensi cominciò allora a discutere delle necessità di mettere in piedi un’organizzazione che potesse provvedere allo studio, attento, coordinato e continuato, delle relazioni internazionali.
Il Council on Foreign Relations sin dall’inizio fu nutrito con la linfa vitale dell’élite finanziaria ed economica statunitense, a testimonianza dell’intreccio indissolubile tra finanza, industria e politica che caratterizza le democrazie liberali, con l’ultima sempre serva e ancella delle prime due. Nasceva così quel formidabile think tank privato che detta tuttora la politica estera statunitense.
Lo scopo di questo impegno sempre più marcato era, ed è tuttora, quello di fornire pianificazioni anticipate in grado di risolvere le problematiche di vasto respiro sul tavolo della dirigenza politica statunitense, ponendo teorie e competenze al servizio degli interessi finanziari e produttivi.

Veniamo al punto
Nel settembre 1939 scoppia la Seconda guerra mondiale.
Per gli obiettivi del Council on Foreign Relations non poteva trattarsi di un momento peggiore.
La partecipazione statunitense alla Grande Guerra e i problemi sul disarmo e le riparazioni, sulla scia della Grande depressione, erano terminati con il trionfo dell’isolazionismo e della diffusione delle teorie autarchiche.
Il consiglio direttivo del Cfr decise di intervenire. Fu un momento di svolta epocale. Proprio grazie al War and Peace Studies Project che disegna la pianificazione di un nuovo ordine mondiale post conflitto, un regime internazionale in cui gli Stati Uniti avrebbero costituito il potere dominante nella cornice di una lucida definizione degli interessi nazionali e degli obiettivi bellici statunitensi.
La considerazione principale ruotava intorno a un perno nodale: gli Stati Uniti non sarebbero riusciti a essere autosufficienti e a mantenere il proprio livello di vita senza i mercati di sbocco e le materie prime dell’impero britannico e dell’Asia.
Se si fossero cioè ridotti ai imiti dell’Emisfero occidentale, in buona sostanza le Americhe.
Il War and Peace Studies Project venne organizzato a questo scopo, ponendo alcune domande preliminari a proposito di quanta e quale parte delle risorse e del territorio mondiale gli Stati Uniti dovevano controllare, direttamente o indirettamente, per mantenere un effettivo livello di potere e di quanto poteva dimostrarsi autosufficiente il Western Hemisphere, lo spazio economico egemonizzato dagli Usa comprendente Nord e Sud America, nel confronto con un’Europa dominata dalla Germania.
Per rispondere a queste domande, pressanti quanto ignorate e sottovalutate dall’opinione pubblica statunitense, il Cfr lanciò un apposito gruppo di studio in vista di un formidabile rapporto econometrico, il più articolato, esteso e complesso mai tentato prima in tutto il mondo.
Il globo venne scomposto all’interno di una griglia divisa in aree strategiche e per ognuna vennero accuratamente calcolati produzione, commercio e trasporto di ogni materia prima e di ogni bene industriale.
Nel quadro venne considerato praticamente il 95% dell’insieme degli scambi internazionali di materie prime e prodotti lavorati e semilavorati.
La risposta apparve drammatica per gli scenari futuri auspicati e previsti dal Council on Foreign Relations: l’autosufficienza di un’Europa continentale dominata dalla Germania sarebbe stata di gran lunga più solida di quella di entrambe le Americhe.
Lo studio fu tenuto riservato e presentato solo alla Casa bianca.
Il Council fece pervenire a Roosevelt un memorandum segreto che riassumeva i dati di realtà analizzati e il quadro di situazione conseguente che dettava un ambito strategico che imponeva l’accesso ai mercati e alle materie prime dell’Europa, dell’impero britannico e delle colonie della Francia e dell’Olanda.
Successivamente, dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel dicembre del 1941, all’indomani di Pearl Harbor, tra il Cfr e il Dipartimento di Stato si registrò un’interpenetrazione a tutti i livelli con l’entrata di personalità di spicco del Council negli enti, nelle amministrazioni, nelle agenzie e negli organismi federali destinati a gestire e coordinare lo sforzo bellico e pianificare il dopoguerra.
Da quel momento, la marcia del War and Peace Studies Project proseguì inarrestabile.

Con quale agenda?
Nell’ipotesi pianificata di un contrasto geopolitico a somma zero nei confronti di un’Europa continentale a trazione tedesca, catturò subito l’attenzione la possibilità di integrare Emisfero occidentale e Area del Pacifico. Ricorrente fissa, soprattutto nel Terzo millennio, della geopolitica statunitense.
La Grand Area, come venne ufficialmente denominato nel 1941 il blocco mondiale esterno al controllo tedesco, doveva essere intesa solo come un’opzione momentanea e passeggera per fare fronte alla situazione d’emergenza creatasi sino al principio di quell’anno fatidico che avrebbe visto, l’8 dicembre, l’entrata in guerra degli Stati Uniti dopo l’attacco del giorno prima a Pearl Harbor.
La Grand Area avrebbe infatti dovuto dilatarsi alle dimensioni di un’economia mondiale dominata dagli Stati Uniti.
Le raccomandazioni fornite “consigliavano” quindi che alla Germania venisse impedito di ottenere il controllo del Nordafrica, del Medioriente e dell’Unione Sovietica e di consolidare le conquiste economiche nell’Europa continentale.
Venne esplicitamente dichiarato, sin dalla metà del giugno 1941, prima cioè dell’intervento in guerra di Washington…, che non doveva essere permesso lo sviluppo di un’Europa unita in quanto sarebbe stata così potente da minacciare seriamente la Grand Area americana. In poche parole, un’Europa indipendente, organizzata e integrata come singola entità, veniva considerata dal Council on Foreign Relations – in maniera tutt’altro che peregrina – fondamentalmente incompatibile con il sistema economico statunitense.
Anche in questo modo si leggono in filigrana le granitiche ragioni geopolitiche dell’intervento statunitense nella Seconda guerra mondiale che, come nel caso della Prima, sono molto lontane dall’essere ideologiche o emotive.
Nelle raccomandazioni finali del rapporto E-B34 del giugno 1941, l’Economic and Financial Group sottolineava «gli elementi principali per l’analisi futura relativa all’integrazione della Grand Area.
Ora fate attenzione. In cima alla lista si collocavano le misure finanziarie come la creazione di istituzioni finanziarie internazionali per stabilizzare il corso delle monete e di istituzioni bancarie internazionali per agevolare gli investimenti e lo sviluppo delle aree più arretrate. Detto altrimenti, era stata già identificata in date precocissime la necessità del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale che sarebbero poi siate specificatamente suggeriti nel febbraio 1942.
Il che getta una luce tagliente anche sulle disavventure economiche dei tempi ultimi.

Torniamo agli anni della Seconda guerra mondiale.
La sfida era indubbiamente drammatica, decisiva e planetaria. Perché a quella lanciata dalla Germania e dal’Italia in Europa, si coniugava quella del Giappone in Asia.
Anche il Giappone, infatti, nel suo bagaglio strategico geopolitico, omologo e contrario a quello di Washington, disponeva di un proprio equivalente della Grand Area statunitense. Il nuovo ordine nipponico prendeva forma all’interno del progetto legato alla cosiddetta “Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale”.
In sintesi, la Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale fu un ambizioso quanto effimero progetto dell’impero giapponese che aveva l’obiettivo di creare, a partire dagli anni ’40 del XX secolo, un’unione economica e politica con i paesi compresi nell’area del Pacifico, dell’Asia centrale e dell’Oceano Indiano, organizzando intorno al Giappone un vasto spazio asiatico che spaziava dall’Indocina francese alle Indie olandesi, dalle Filippine sino alla Cina e alla Manciuria anche se i confini, sotto l’urgenza delle emergenze belliche, non vennero mai delineati in maniera definitiva.
Per il Cfr restava il problema di convincere alla guerra la nazione statunitense, alle prese con una feroce e inesorabile depressione economica e solidamente trincerata in un’ostinata opposizione isolazionista a quella drammatica opzione.
L’attacco aeronavale giapponese a Pearl Harbor tolse provvidenzialmente le castagne dal fuoco al Cfr e a Roosevelt.
Ma questa è un’altra storia…

Qual è la principale lezione appresa da trarre alla luce dell’analisi relativa al War and Peace Studies Project promosso, organizzato e diffuso dal Council on Foreign Relations?
Forse quella che ci conferma che i grandi conflitti non sono mai ideologici bensì geopolitici.
Coinvolgendo strategie, tattiche, pianificazioni, manipolazioni e provocazioni, tutte studiate in vista di obiettivi di ben più ampio spazio, respiro e dimensioni rispetto a quelli dei protagonisti locali direttamente interessati come a quelli alla portata immediata degli interessi, delle aspirazioni e delle reazioni psichiche dell’opinione pubblica nazionale e internazionale.
Come rivediamo distintamente nella trama profonda dell’attuale guerra tra Russia e Ucraina, combattuta per procura degli Stati Uniti, con l’Europa a rimorchio.
Sullo sfondo del Great Game per il controllo dell’Eurasia.

Le fantasiose patologie dei dissociati

Disforia di genere Negli ultimi anni si è parlato sempre di più di disforia, patologia del tono dell’umore, contraria all’euforia, stato di eccitazione benefica. Soprattutto oggi questo disturbo è riferito alla sfera della sessualità, la disforia di genere, il disagio...

Sinistra sul caviale del tramonto

Qual è l’obiettivo di Sinistra sul caviale del tramonto? È una modesta proposta per uscire dalle paludi della politica italiana contemporanea. Attraverso un salto di paradigma, culturale prima che politico. Nel segno di un passaggio dal riflesso (di rabbia e...

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Share This