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Inflazione: la lezione (imprevista) della repubblica di Weimar – I

Prima parte

Secondo una vulgata addomesticata della Storia, fu l’inflazione della Repubblica di Weimar a favorire l’ascesa del regime nazionalsocialista. Ma non è proprio così, come ricorda da par suo Alberto Bagnai, perché tra la fine dell’iperinflazione (1924) e l’ascesa di Hitler al cancellierato (1933) passano nove anni, nei quali fondamentale fu la decisione del cancelliere Heinrich Brüning del Deutsche Zentrumspartei, il Partito del Centro tedesco, di rispondere alla crisi mondiale del 1929 con politiche di austerità sempre più aggressive.

La disoccupazione andò alle stelle e la Germania si mise a cantare l’Horst-Wessel-Lied, inno barbarico alla gioia in memoria di una camicia bruna delle Sturmabteilungen assassinata da un militante comunista.

La messa in guardia secondo cui l’ascesa al potere del Terzo Reich non fu causata dall’inflazione bensì dalla deflazione aggravata da anni di politiche di austerity, trova un autorevole e diretto riscontro in uno studio del 1938 di Bruno Heilig (1888-1968), un giornalista austriaco di origine ebraiche, intitolato Why the German Republic Fell (Warum die Deutsche Republik Fiel, nell’originale tedesco).[1]

Heilig, rifugiatosi in Gran Bretagna nel 1938, è stato direttore e corrispondente estero di numerosi quotidiani austriaci, tedeschi, ungheresi e dei Balcani. Nei cinque anni precedenti la caduta della Repubblica di Weimar risiedette a Berlino, prima facendo parte della redazione della Vossische Zeitung, poi come corrispondente del Wiener Tag di Vienna e del Prague Prager Presse. Nei cinque anni successivi, fu editorialista e responsabile degli Esteri del Wiener Tag e di Der Morgen. I tredici mesi di detenzione nel campo di concentramento di Dachau prima e di Buchenwald poi, furono alla base del libro pubblicato nel 1947, Menschen am Kreuz, Men Crucified nell’edizione inglese.

Cominciando la sua analisi sulle cause del crollo di Weimar, Heilig ricorda che Hitler divenne cancelliere seguendo le stesse modalità istituzionali dei suoi predecessori, regolarmente investito secondo le normali procedure previste dalla Costituzione. «Non c’era ragione per cui il popolo tedesco si dovesse sottomettere alla tirannia contro la sua volontà. Seguirono il tiranno volontariamente, molti di loro con giubilo. Come accadde, com’è potuto accadere?».[2]

L’iperinflazione tedesca era stata domata nel 1924, una volta esaurita la funzione di espediente volontario ideato dal governo di Weimar per pagare alle potenze alleate uscite vincitrici dalla Grande Guerra, con una moneta svalutata, le insostenibili riparazioni e i debiti contratti nel corso del conflitto. Venne così escogitato il Rentenmark, moneta provvisoria garantita da ipoteche su terreni e industrie, sino a quando venne introdotto il Reichsmark, di nuovo agganciato all’oro. L’economia tedesca conobbe allora una vertiginosa e immediata rinascita.

La Germania aveva bisogno di capitali per la ripresa e per dare vita al suo inaspettato boom economico. Scattò così l’incontro fatale tra due egoismi concordanti. Perché le banche statunitensi non sapevano dove investire i colossali flussi di denaro che avevano accumulato nel corso della Prima guerra mondiale.[3]

Come a partire dagli anni ‘90 del XX secolo i capitali globali si sono trasferiti nei paesi delle economie emergenti, allo stesso modo si comportarono nel 1924. Solo che questa volta il più vantaggioso paese emergente era la Germania, anche se uscita stremata dalla sconfitta nella Grande guerra. Che, anzi, riuscì a trasformare questa condizione in un vero e proprio trampolino di lancio.

Grazie ai capitali esteri, infatti, «le fabbriche smantellarono i vecchi impianti per rimpiazzarli con macchinari di ultimissima produzione. La Germania si avviò a diventare il paese industriale più avanzato del mondo, superando gli stessi Stati Uniti. La fame di manodopera risucchiò milioni di lavoratori nelle città. La popolazione di Berlino passò da due a sei milioni e mezzo di abitanti […] L’intero sistema ferroviario fu modernizzato e riequipaggiato. A Berlino interi quartieri furono abbattuti per allargare le strade e, nel cuore della capitale, Alexander Platz stava per trasformarsi nella piazza più ampia del mondo, circondata da modernissimi grattacieli che ospitavano gli uffici delle nuove imprese tedesche».[4]

Come nella Cina di oggi, l’esodo dalle campagne produsse una bolla edilizia incontrollata. L’abbondanza di capitali scatenò la febbre immobiliare, con un rincaro esponenziale dei terreni da costruzione. In questa corsa affannata e disordinata alla ricchezza, i prezzi e gli affitti delle terre saettarono verso l’alto insieme al costo dei materiali edili, a causa dei dazi doganali che proteggevano i produttori dalla concorrenza estera. Il prezzo del ferro era il doppio di quello britannico e quello del cemento il triplo.

Il costo dei terreni crebbe del 700% a Berlino, del 500% ad Amburgo mentre in alcuni quartieri della capitale si arrivò addirittura al 1.000%, una manna dal cielo per chi aveva i contatti giusti con il consiglio municipale, lo Stadtrat. Bastava conoscere in anticipo l’ubicazione di una nuova fermata della metropolitana e il tempestivo acquisto a buon mercato di qualche centinaio di metri quadrati nel posto scelto con opportuno anticipo si sarebbe tramutato in una fortuna. Ma non bastava. Non basta mai…

Nel corso della guerra, gli affitti delle case erano stati bloccati per decreto. A ripresa decollata, improvvisamente, i giornali della Repubblica di Weimar, la “prima democrazia tedesca”, finanziati da chi aveva fondi in eccedenza da destinare a buon rendere in quella direzione, lanciarono una martellante campagna mediatica per adeguare, come si disse, gli affitti. Un emendamento di legge permise aumenti, in precedenza congelati, sino al 125% del livello precedente la guerra. E questo senza prendere in considerazione, segnala Heilig, che i proprietari degli immobili si erano già visti ridurre, grazie all’inflazione, l’onere dei mutui di ben tre quarti. Il peso della manovra, come al solito, si scaricò sulle spalle e nelle tasche dei ceti più deboli. Infatti, con gli affitti, era tutto il costo della vita che aumentava.

Il popolo tedesco non doveva solo pagare la sua libbra di carne ai monopolisti immobiliari, doveva anche contribuire a finanziarne i lucrosi affari. «Ad Amburgo, per esempio, i contribuenti dovettero sottoscrivere 60 milioni di marchi per compensazioni erogate ai proprietari e 40 milioni in sussidi vari ai costruttori edili. E dopo tutto questo penare, le pigioni in tutta la città di Amburgo salirono di 20 milioni di marchi all’anno».[5]

Una situazione scandalosa avvolta in un ammorbante clima di corruzione e speculazione.

A Berlino gli acquisiti fatti dal consiglio municipale intorno alla zona dell’Alexander Platz ammontarono a 120 milioni di marchi per aree che prima dei contratti erano state valutate 35 milioni. Il surplus di 85 milioni, spiega Heilig, era corrisposto ai venditori in quanto si trattava del valore aggiunto che si sarebbe determinato grazie ai lavori di ammodernamento pagati dai contribuenti, per cui doveva essere corrisposto ai venditori “in prospettiva”. «Un caso di corruzione e di tangenti legalizzati». A proposito della conclamata e apparentemente ontologica onestà tedesca…

Non si trattava di situazioni legate alla sola speculazione edilizia abitativa. Anche le “privatizzazioni” furono altrettanto colossali quanto odiose. Il consiglio municipale di Berlino spese milioni di marchi per rimodernare il porto fluviale, il secondo della Germania dopo quello di Duisburg, posto alla confluenza del Reno e della Ruhr, nella parte occidentale della regione industriale della Ruhr.

Berlino, infatti, nasce sull’acqua dato che è costruita sull’acqua. Come si dice, Berlin ist aus dem Kahn gebaut, Berlino è stata costruita con le canoe. Situato sulla Sprea, il porto della capitale tedesca venne perfettamente attrezzato con enormi magazzini e le più moderne e imponenti attrezzature di carico e scarico. Ma quando venne ultimato, il funzionario comunale responsabile del progetto, “Herr Schüning” nella testimonianza di Heilig, non si peritò, nel clima di impunità anche allora regnante, di dichiarare che il porto non avrebbe potuto operare con efficienza e con profitto senza adeguati finanziamenti pubblici per cui conveniva assegnarlo in concessione a imprenditori privati, per definizione apodittica più capaci della mano pubblica.

Venne così rapidamente costituita una nuova società, la Berlin Port & Warehouse, Ltd., grazie al concorso di una ditta specializzata in materiale ferroviario, la Busch Wagon Factory, e un’agenzia di trasporti, la Schenker & Co. A quel consorzio per la gestione del porto, il consiglio municipale affidò in concessione per cinquant’anni tutta l’area portuale, compresi i magazzini, le infrastrutture e gli equipaggiamenti relativi, a fronte di un pagamento di 369mila marchi per tutta la durata dell’accordo. Non una rata annuale, ma un pagamento unico a forfait per 50 anni di affitto…

Anche se, come segnala Heilig, l’area del bacino si estendeva per un milione di metri quadri e il solo nudo affitto dei terreni in quella zona della capitale tedesca valeva almeno un marco al metro quadro. In altre parole, la Berlin Port & Warehouse, Ltd. pagò per la concessione di quell’area perfettamente attrezzata a spese del Comune di Berlino poco più di 350mila marchi invece dei 50 milioni che avrebbe dovuto corrispondere per il solo affitto della terra… Al netto cioè di magazzini e infrastrutture portuali.

Per di più, il municipio avrebbe garantito alla società un prestito di cinque milioni di marchi come capitale operativo visto che per quei capitani coraggiosi il “rischio d’impresa” appariva insostenibile.

Non stupisce che, dodici mesi esatti dopo la firma del contratto, Herr Schüning venne nominato direttore generale della società. «Con il porto di Berlino sotto il loro controllo, i proprietari del consorzio controllavano tutto il flusso di rifornimenti diretto a Berlino mentre i berlinesi dovevano pagare alla società un tributo per ogni briciola di pane consumata».[6]

Le meraviglie e i misteri della prima democrazia tedesca.

(continua)

[1] Cfr., http://schalkenbach.org/rsf-2/wp-content/uploads/2015/02/Heilig-1938-Why-the-German-Republic-Fell-trans-English.pdf.

[2] B. Heilig, op. cit., pag. 3.

[3] Cfr. G. Peroncini, La nascita dell’impero americano. 1934-1936: la Commissione Nye e l’intreccio industriale, militare e politico che ha governato il mondo, Milano, 2013.

[4] B. Heilig, op. cit., pag. 5.

[5] B. Heilig, op. cit., pag. 9.

[6] B. Heilig, op. cit., pag. 13.

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