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Inflazione: la lezione (imprevista) della repubblica di Weimar – II

Seconda e ultima parte

Il boom industriale, su questo scenario di fondo, durò sette anni. La grande e folle stagione della Repubblica di Weimar radical-chic, arricchita dai profittatori di guerra, dalla corruzione e dalla sbornia del credito sempre più facile.

Spinte dai flussi imponenti dei finanziamenti esteri, le imprese prosperavano gonfiandosi sino a perdere l’indispensabile elasticità operativa. Fu l’aumento complessivo delle parti fisse dei costi di produzione a richiamare alla dura realtà. Il servizio del debito per l’acquisto dei terreni, degli stabilimenti e degli impianti, erano cresciuti in quanto non si trattava di variabili comprimibili. E come sempre avviene in questi casi, i grandi capitani d’industria dalle smisurate ambizioni ma dalle rotte di piccolo cabotaggio, al primo stormir di fronde intervennero sulla parte variabile, i salari e gli stipendi, che per loro rappresenta l’unica spesa che ritengono sacrificabile. Innescando fatalmente un ciclo vizioso e recessivo.

Come sappiamo, gli investimenti industriali erano stati attirati in Germania, per lo stesso motivo delle delocalizzazioni odierne, grazie cioè al basso livello del costo del lavoro dopo una guerra catastrofica e, soprattutto, perduta. I bassi salari stimolano sempre gli investimenti industriali e masse di disoccupati calmierano in maniera naturale il mercato del lavoro.

L’aumento del costo dei terreni determinò un altro incentivo agli investimenti produttivi da parte dei redditieri immobiliari ma fece aumentare anche il costo della vita che doveva essere in qualche modo adeguato alle esigenze delle masse in crescente difficoltà. Queste ultime cominciarono a chiedere aumenti salariali. La risposta degli imprenditori fu la razionalizzazione dei meccanismi

produttivi, accelerando la modernizzazione di equipaggiamenti sempre più efficienti per ridurre rapidamente e al massimo il costo del lavoro, liberandosi del maggiori numero di lavoratori e risparmiando sulla manodopera. Modalità ricorrenti dell’industria ad alta intensità di capitale.

In questo modo, la produzione aumentò ma al prezzo di costi di produzione più alti visti gli impegnativi investimenti, mentre la domanda declinava a fronte della crescente disoccupazione visto che senza stipendio le masse non potevano acquistare le merci messe sul mercato.

D’altra parte, è semplice norma di buonsenso ricordare che affrontare i segnali di crisi comprimendo i salari e licenziando i lavoratori non è mai una buona ricetta. Oggi come ieri. «La Germania in quel periodo viveva in uno stato di ebbrezza. Modernizzare, modernizzare a ogni costo, era la sola idea che gli imprenditori riuscivano a concepire. Nel 1930 i primi segni della crisi divennero manifesti. I lavoratori spazzati via dalla meccanizzazione dal mercato del lavoro incontravano sempre più difficoltà a trovare nuovo impiego mentre industriali e commercianti lamentavano le difficoltà incontrate nel piazzare i loro prodotti. La situazione si deteriorava mese per mese, settimana dopo settimana. Nel 1931 la crisi viaggiava ormai a piena forza. Gli strumenti consolidati per risolverla erano falliti. La restrizione della produzione peggiorò il quadro d’insieme. Ammortizzatori sociali, affitti, interessi, tasse, divoravano tutte le risorse. I lavoratori venivano licenziati en masse ma gli imprenditori non ne ricavavano alcun vantaggio anche perché ogni lavoratore senza lavoro era un altro consumatore andato perduto. Il numero dei disoccupati raggiunse le decine di migliaia, poi le centinaia di migliaia mentre il numero dei fallimenti aumentava proporzionalmente».[1]

Nient’altro che la manifestazione del peccato originale del capitalismo giunto alla sua massima “efficienza”: le merci sempre più abbondanti non trovano più acquirenti perché i lavoratori – che rappresentano lo sbocco del consumo di massa –, insieme ai loro salari, hanno perso potere d’acquisto. Questo è quello che avvenne in Germania negli anni ‘30.

Come abbiamo visto, gli imprenditori tedeschi corsero ai ripari riducendo la produzione dei beni industriali. Ma le parti invariabili dei costi, cioè le spese fisse, interessi sul debito, tasse, ammortamenti e affitti, si scaricarono su un volume minore di beni, aumentando il costo unitario di ogni bene. Che, a sua volta, nel circolo vizioso della crisi, innescava un ulteriore calo della domanda. Anche nella Germania di Weimar il flusso degli investimenti esteri – non controllato da un’autorità super partes – aveva prodotto sovrapproduzione, disoccupazione e recessione.

Il crollo inevitabile e conseguente delle banche tedesche nell’estate del 1931 fu causato dalla stretta provocata dalla teoria applicata dei costi fissi. Industriali e commercianti non potevano più fare fronte ai debiti e agli interessi contratti con gli istituti di credito i quali, a loro volta, dovettero sospendere i pagamenti.

Dovette allora allora il governo perché l’arrogante dottrina liberista è sempre a geometria variabile. Quando l’economia marcia a tutta forza, l’intervento dello Stato è sempre negativo, penalizzante e improduttivo, in quanto si presenta sotto forma di concorrenza al mercato privato, ma quando il capitalismo è in pericolo a causa delle sue contraddizioni interne allora i più strenui difensori dell’iniziativa privata e del rischio d’impresa, si trasformano in scalmanati statalisti e invece di rivolgersi alle cure e alle leggi del mercato e della sua “mano invisibile”, e quindi fallire…, per salvarsi a ogni costo (altrui) preferiscono e pretendono affidarsi all’intervento pubblico, cioè alla mano visibile dello Stato. Se necessario con un quiet coup d’état… Un sobrio e teleguidato colpo di Stato.

In questa ottica il Mario Monti o il Mario Draghi della Repubblica di Weimar si chiamava Heinrich Brüning, formato all’università di Bonn e alla London School of Economics, presidente del gruppo parlamentare del Deutsche Zentrumspartei, il Partito del Centro tedesco, espressione del 32% cattolico del paese. Non a caso e per tempo definito persona assai sobria…, il Reichskanzler Brüning si prodigò attivamente spendendo miliardi di marchi dei contribuenti tedeschi, già allo stremo, per salvare le banche e accordando ingenti sussidi alle imprese in difficoltà.

A fianco di queste politiche, Brüning lanciò una campagna deflazionista per generare una diminuzione del livello generale dei prezzi basata su un aumento del tasso di sconto, imponenti tagli delle spese statali e una drastica riduzione dei sussidi di disoccupazione e dei salari che infatti vennero penalizzati del 15%. Secondo una bizzarra ratio liberista alla luce della quale l’intervento avrebbe ridotto i prezzi dei beni di consumo, aumentato la domanda e ridotto la disoccupazione. In realtà, così facendo, inoculò nel tessuto sociale della Germania dosi ancora più massicce del veleno che ne sfibrava il tessuto. La stessa ricetta delle politiche di austerità somministrate nell’Eurozona in crisi e poi criticate dal Fmi e dalla stessa Commissione europea. Come oggi ben sappiamo, la politica di Brüning si rivelò una ricetta fallimentare dato che, come ricorda Heilig, i prezzi sono determinati da fattori diversi rispetto al semplice computo salariale. I risultati della “cura Brüning” non potevano tardare a manifestarsi: «Sette milioni di uomini e donne, un terzo della forza produttiva, era senza lavoro. La classe media era stata spazzata via. Questa la situazione a un anno dall’apice della prosperità».[2]

Ricorda niente…?

Di fronte alle crescenti difficoltà parlamentari del gabinetto Brüning, nel 1930 il presidente Paul von Hindenburg si risolse a indire per il 14 settembre nuove elezioni che segnarono inevitabilmente una grande avanzata delle ali estreme dello schieramento politico, il partito comunista di Germania e quello nazionalsocialista, il Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, Nsdap, elidendo il consenso della coalizione dei partiti di quello che poteva essere definito “l’arco costituzionale di Weimar” su cui il cancelliere basava la sua coalizione. «Il 14 settembre 1930 costituì una svolta decisiva nella storia della repubblica di Weimar, in quanto decretò la fine del regime partitico democratico, preannunciando la fase agonica dello Stato tutto quanto. Quando, il mattino verso le tre, furono resi noti i risultati, la situazione apparve radicalmente mutata: lo Nsdap venne a trovarsi di colpo nell’anticamera del potere, e il suo Führer, l’araldo, l’ammirato, lo schernito Adolf Hitler, divenne una delle figure chiave della scena politica. Il destino della repubblica era segnato, giubilava la stampa nazionalsocialista: adesso aveva inizio la fase di inseguimento del nemico. Non meno del 18% degli elettori avevano prestato orecchio all’appello dello Nsdap; rispetto alle elezioni di due anni prima, il partito aveva visto aumentare il numero dei suoi voti da 810.000 a circa 6.400.000; e, se in precedenza aveva disposto di dodici mandati, ora poteva contare, non già su cinquanta o settanta, come aveva previsto Hitler, bensì su centosette seggi, ed era dal punto di vista numerico il secondo partito dopo lo Spd: nella storia dei partiti, non si ha esempio di un incremento paragonabile a questo».[3] Dei partiti borghesi, soltanto il Zentrum cattolico aveva potuto mantenere le proprie posizioni, tutti gli altri avevano dovuto registrare cospicue perdite, anche i socialdemocratici. Solo i comunisti, insieme ai nazionalsocialisti, potevano vantare un incremento elettorale, passando dal 10,6% al 13,1%.

Secondo Fest, il successo nazionalsocialista era dovuto, in maniera cospicua, alla mobilitazione dei giovani e degli apolitici che in precedenza si erano astenuti. Rispetto alle elezioni del 1928, la percentuale dei votanti era salita all’80,2%, con un aumento di oltre quattro milioni e mezzo. Oltre alla formidabile macchina da propaganda di Joseph Goebbels e Hitler e all’impegno militante delle Sa, le squadre d’azione del Nsdap, buona parte del merito era da attribuire alle politiche deflazioniste del governo di Weimar.

A Brüning, forte dell’appoggio del presidente, non restò che chiedere e ottenere i poteri straordinari garantiti dall’articolo 48 della Costituzione di Weimar, governando grazie alle disposizioni sancite dall’emergenza presidenziale e coniando il termine di “democrazia autoritaria” per descrivere l’anomala forma di governo basata sulle prerogative presidenziali e sulla collaborazione diretta con Hindenburg. Anche questo, ricorda niente…?

Gli effetti politici di quella catastrofe economica indotta dalle follie deflazioniste liberiste furono altrettanto immediati. Mentre crescevano esponenzialmente la disoccupazione, la povertà e con essa la paura della povertà, aumentava la presa sulle masse del movimento nazionalsocialista.

Brüning tuttavia continuò imperterrito sulla sua rotta, anche quando nel febbraio 1932 il numero dei disoccupati giunse a a toccare cifre record. «Ma i suoi concittadini non ne condividevano né il rigore né le speranze; essi soffrivano la fame, il freddo e gli altri corollari della miseria, detestavano i continui decreti speciali accompagnati da formali appelli al sacrificio: il governo, tale il rimprovero che da moltissime parti gli veniva rivolto, si accontentava di gestire la crisi, anziché superarla. Se la politica di spietato risparmio di Brüning presentava il fianco alle critiche dal punto di vista economico, ancor meno valida essa si rivelò sul piano politico, denunciando la propria impotenza, la propria incapacità a redimere dalla disperazione i tedeschi, e ciò perché il cancelliere, nella sua tecnicistica freddezza, era incapace di quei toni patetici, suscettibili di indurre al sacrificio e di fare, del sangue, del sudore e delle lacrime, un numero a sensazione accolto da fragorosi applausi».[4]

Se l’analisi di Fest è corretta, né Brüning né Weimar potevano avere scampo. Basta mettere a confronto due scampoli dei discorsi degli oratori a confronto. «Dietro l’attività oratoria e le adunate – Hitler fece venti discorsi importanti durante la campagna – c’era l’efficiente organizzazione nazionalsocialista, il frutto di sei anni di lavoro del genio politico di Hitler. Mentre egli stesso non era un buon organizzatore di routine, la sua capacità nel trovare e nell’attrarre gli uomini giusti e nel metterli nel posto giusto aveva reso altamente professionistica, sebbene ancora relativamente piccola, la macchina nazionalsocialista. […] In uno dei suoi discorsi di quella campagna Hitler disse: “Noi dobbiamo imparare ancora una volta a pensare generosamente, dobbiamo di nuovo divenire altruisti, e il popolo tedesco deve imparare a vivere di nuovo senza invidia. […] Diverrà vivo nel popolo tedesco un nuovo spirito e intraprenderà la lotta contro la decadenza del mondo. […] La via che deve percorrere un popolo, se vuole ascendere alle grandi altezze, non è la via degli agi e delle comodità, ma la via della lotta senza quartiere. Su questa terra tutto è lotta e combattimento. Lavoro e lotta sono due concetti che ne formano in realtà uno solo”».[5]

Dal canto suo Brüning, atterrito dal risultato elettorale, in un melanconico discorso indirizzato alla nazione per l’inizio del nuovo anno dichiarò: «La politica può fare molto per noi, ma non può fare felice la gente». Hitler stava dimostrando e avrebbe dimostrato di essere in grado di realizzare esattamente il contrario.

Come abbiamo visto, nel primo anno della crisi il numero dei deputati nazisti eletti al Reichstag passò da 12 a 107. Meno di due anni dopo erano raddoppiati. Nello stesso periodo i comunisti conquistarono metà dei voti del partito socialdemocratico tedesco, passando da 54 a 77 seggi. Ma questa ascesa era strumentalmente utile a Hitler visto che i comunisti avevano strappato voti ai socialdemocratici ed era questo il partito che sbarrava la strada al suo trionfo.

A questo punto, solitamente si glissa sul fatto che Brüning, una volta esaurite tutte le opzioni di finanza più o meno spericolate esperite per uscire dalla crisi, tentò un via d’uscita non meno “creativa” e, come detto, per lo più ignorata dai resoconti. Ossessionato dalla crescente e inesorabile avanzata nazionalsocialista e dalla scadenza della successione prossima all’anziano e malandato presidente Hindenburg, il Reichskanzler Brüning ricorda nelle sue memorie il suo ultimo, disperato, tentativo per opporsi alla vittoria ormai imminente di Hitler attraverso la reintroduzione della monarchia legata alla dinastia Hohenzollern.

Il progetto prevedeva l’annullamento delle elezioni presidenziali del 1932 e la proroga del mandato di Hindenburg nel corso del quale il Parlamento, a maggioranza dei due terzi, avrebbe proclamato il ritorno della monarchia, con Hindenburg come reggente, per garantire la sua azione deflazionistica rendendola, contro ogni evidenza storica, più digeribile al popolo tedesco.

Successivamente, alla morte di Hindenburg, sarebbe stato ufficialmente incoronato il principe ereditario Guglielmo di Prussia, figlio maggiore del deposto kaiser Guglielmo II. Il piano aveva ottenuto il concorso dei partiti della maggioranza di governo, compresi i socialdemocratici, dato che il modello della nuova monarchia, lasciandosi alle spalle quello dell’autocrazia prussiana, sarebbe stato elaborato su quello costituzionale britannico. A quanto pare, tutto si arenò in quanto Hindenburg avrebbe voluto che alla sua morte venisse reinstaurato sul trono l’ex kaiser Guglielmo e non il figlio. La Repubblica di Weimar era giunta, tutt’altro che immacolata e innocente, al passo d’addio.

Il 29 maggio 1932, di fronte a nove milioni di disoccupati, con la produzione agricola inferiore del 31% rispetto all’anno precedente, quella industriale sotto del 36%, Hindenburg dimissionò Brüning.

Continuare ostinatamente nelle politiche di austerity, imposte a colpi di decreti d’emergenza presidenziali sull’economia e la finanza, e nel contempo annullare il previsto golpe bianco monarchico, cui venne meno la complicità di Hindenburg e del generale Kurt von Schleicher, ministro della Difesa del Reich, non erano state scelte felici per la sopravvivenza di Weimar. «I tedeschi agiscono ogni volta alla rovescia di come dovrebbero. Anche nel 1932, quando solo un colpo di mano dell’esercito e la fine dei Parlamenti di Weimar avrebbero salvato la Germania da Hitler. E invece il generale von Schleicher assentì a nuove elezioni, nel calcolo assurdo d’imbrigliare Hitler. Nelle elezioni del luglio 1932, 13,7 milioni di voti elessero duecentotrenta deputati della Nsdap, il 38% dei deputati del Reichstag, di gran lunga il primo partito. La Spd ottenne centotrentatré deputati. I modi d’una democrazia occidentale si confermarono i più utili a Hitler».[6]

Nelle successive elezioni del 6 novembre 1932, il movimento nazista perse due milioni di voti rispetto a quelle di luglio passando dal 37,8% al 33,5%. Ma ciò non impedì al Nsdap di restare ancora il più forte partito di Germania. Per di più, i comunisti del Kommunistische Partei Deutschlands guadagnarono un milione di voti e i deputati del Kpd salirono al 17,1% del Reichstag con 11 seggi in più. I partiti dell’arco costituzionale tedesco non erano in grado di formare un governo e così il 2 dicembre 1932 venne dato vita a un Präsidialkabinett guidato da von Schleicher che, nel tentativo fuori tempo massimo di riparare ai danni delle devastanti politiche deflattive precedenti, dichiarò subito che il suo programma era uno solo: creare lavoro.

Era troppo tardi. «La Germania fu vinta dalla penuria; patì la più grande crisi capitalistica mai prima conosciuta. Nel febbraio del 1932, i disoccupati furono 6,1 milioni, i senza lavoro nell’industria il 43,8%; in città ormai lugubri i più fortunati ottenevano stipendi e salari diminuiti. Nella Prussia orientale i suicidi dei Landherren ritmavano il disastro di un’agricoltura ovunque rovinata dalle ipoteche e dalla deflazione. Ogni economia sostanziale era ritornata a tutte le tristezze del biennio 1916-1917. Ma mentre allora la guerra occupava a morire operai, studenti c impiegati, nel triennio tra il luglio del 1931 e il 1933, costoro vagavano disoccupati. Calcolando le mogli e i figli, venti milioni di tedeschi erano nell’indigenza: solamente le delinquenze della Kpd e della Nsdap s’offrivano d’occuparli».[7]

Il 30 gennaio 1933 Hitler, il «caporale boemo» nella sprezzante definizione del vecchio presidente, fu nominato cancelliere del Reich.

[1] B. Heilig, op. cit., pag. 23.

[2] B. Heilig, op. cit., pag. 27.

[3] J. Fest, Hitler, Milano, 1976, pag. 352.

[4] J. Fest, op. cit., pag. 382-383.

[5] C. Cross, Adolf Hitler, Milano, 1971, pag. 142.

[6] G. Alvi, Il secolo americano, Milano, 1996, pag. 393.

[7] G. Alvi, op.cit., pag 388.

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