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Il vero potere del Denaro…

Considerazioni inattuali sulla mafia e le sue radici

La cattura dopo decenni di latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro, oltre alla grande soddisfazione suscitata, ha innescato tuttavia anche diversi interrogativi sul timing di quell’arresto eccellente. E di cui si è fatta interprete anche la deputata di Fratelli d’Italia Rita Dalla Chiesa.

Al netto di queste polemiche, la vicenda consente alcune riflessioni generali sul fenomeno mafioso in generale nel quadro delle vicende politiche e sociali della Repubblica italiana. Cominciamo dall’inizio…

Il prefetto di Trapani Cesare Mori, l’uomo di Mussolini per la repressione del fenomeno mafioso in Sicilia, ricorda Andrea Cionci sulla Stampa, coperto e autorizzato in tutto e per tutto dal governo fascista, «attuò una durissima repressione del fenomeno mafioso, ricorrendo, spesso, a metodi brutali: furono incardinati diecimila processi, con innumerevoli condanne, mentre molti pericolosi boss furono mandati al confino o costretti a emigrare negli States».[1]

Giuseppe Carlo Marino, storico e accademico italiano, dal 2001 ordinario di Storia contemporanea presso l’università di Palermo, autore di numerosi saggi, collaboratore della Rai e storico di scuola marxista, iscritto negli anni ’70 al Pci, non sospetto quindi di derive “nostalgiche”, nel saggio Storia della mafia, un long and best seller, più volte rieditato, riassume in maniera efficace l’azione del prefetto Mori. «Con i poteri quasi dittatoriali di cui disponeva, il prefetto di ferro ampliò con sistematicità il raggio della sua azione in misura delle crescenti acquisizioni di informazioni e procedette, con il metodo sbrigativo delle retate, all’arresto di centinaia e poi di migliaia di malavitosi, a seconda dei casi avviati alle carceri per regolari processi o spediti al domicilio coatto nelle isole adiacenti alla Sicilia in applicazione di semplici decisioni amministrative, oppure soltanto sottoposti al regime di ammonizione. […] Nel contempo, a parte l’uso implacabile del bastone, mostrò di sapersi avvalere anche della carota. Fu abile e talvolta suadente con i contadini. Largheggiò in comizi, in manifestazioni di propaganda e in esibizioni demagogiche; tentò, con sincera passione, di convincere e di convertire. Inaugurò la pratica di mobilitare l’opinione pubblica e soprattutto i giovani nell’impegno antimafia, presiedendo comizi e manifestazioni nelle piazze dei paesi e nelle scuole. Fu un solerte propagandista dei fini della sua attività, con l’idea, seppure piuttosto vaga e discontinua, di dovere promuovere un profondo cambiamento culturale alle basi del sistema di vita siciliano. Volle che la severità e la repressione non oscurassero, ma facessero risaltare in benefica autorevolezza, il volto pacificatore dello Stato».[2]

La più che energica repressione del fenomeno mafioso da parte di Mori non eradicò del tutto, in così pochi anni, l’Onorata società dall’isola, compito che avrebbe richiesto almeno due o tre generazioni, ma ne ridusse i resti disarticolati a una condizione “dormiente” e inattiva. Decine di ex sindaci mafiosi, ieri come oggi il fulcro del potere mafioso, «furono condannati a gravi pene detentive. Furono inesorabilmente colpite personalità assai in vista e rispettate […]. Non la fecero franca, anche se riuscirono poi a ritagliarsi un qualche spazio di sopravvivenza per un’umbratile navigazione nel regime, personaggi destinati a una grande storia mafiosa: Calogero Vizzini, “signore” di Villalba, Giuseppe Genco Russo “patriarca” di Mussomeli e il palermitano Carlo Gambino. Tra le migliaia di malavitosi sottoposti a una successione impressionante di maxiprocessi (molti di più dei quindici censiti dal Duggan), moltissimi, la stragrande maggioranza, erano dei poveracci e costituivano, al più, la cosiddetta manovalanza della mafia; ma non pochi – tra gli imputati del “processone” di Termini Imerese del 1927 e di quello di Mistretta del 1928 – stavano molto al di sopra della bassa mafia (Tessitore, 1994)».[3]

Tuttavia, anche l’uomo forte di Mussolini «fu costretto a fermarsi di fronte al baronato, il ceto dei grandi latifondisti che utilizzava la manovalanza mafiosa per il controllo delle proprietà agricole. Se male avevano sopportato l’opera del “Prefetto di ferro”, i baroni reagirono malissimo all’assalto al latifondo con l’istituzione, nel 1940, dell’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano. Questo organismo li costringeva, infatti, ad apportare migliorie produttive (con i contributi dello Stato) pena l’esproprio delle loro campagne. Così, i grandi proprietari terrieri fondarono un comitato d’azione separatista capeggiato da un triumvirato composto dal conte massone Lucio Tasca, dal liberale massone Andrea Finocchiaro-Aprile e dal “mafioso tout court” don Calogero Vizzini, tornato a Villalba dopo sei anni di confino. Nel ’42, il comitato prenderà il nome di Movimento per l’indipendenza della Sicilia (Mis), e avrà la sua grande occasione con lo sbarco alleato del ’43, salutando gioiosamente gli angloamericani al loro arrivo e “sollecitando” il popolino a fare altrettanto nelle strade e nelle piazze».[4]

La mafia sarebbe dunque ricomparsa in Italia grazie allo sbarco alleato in Sicilia, alla luce dei contatti stabiliti, sin dall’inizio della Seconda guerra mondiale, tra i servizi segreti della marina statunitense e l’organizzazione mafiosa di Lucky Luciano per neutralizzare il network di sabotatori italiani e tedeschi attivi nel porto di New York. Una collaborazione, scrive Cionci, che «consentì agli americani non solo di smantellare la rete spionistica italiana nel porto di New York, ma anche di garantirvi una forzosa pace sindacale per non turbare l’invio di materiale bellico in Europa».

I cosiddetti “uomini d’onore” ebbero dunque l’occasione di rialzare la testa grazie all’attacco alleato del 1943, come nel film del 2016 diretto e interpretato da Pif, In guerra per amore, ha avuto il merito di rivelare sia pure in un sussurro, sotto le spoglie di una delicata commedia romantica.

Un altro servizio reso da Lucky Luciano, sottolinea Cionci, «fu quello di segnalare agli americani i mafiosi residenti in Sicilia che avrebbero certamente cooperato al momento dello sbarco (operazione Husky). L’Office of Strategic Services (Oss), il servizio segreto statunitense, si preoccupò anche di selezionare militari di origine siculo-americana e di creare una rete di contatti con tutti coloro che, nella Trinacria, fossero ostili al regime».

Da questo punto di vista – a fronte di contingenze storiche, politiche e sociali irripetibili – risulta impossibile negare che la mafia presentava credenziali antifasciste di tutto rispetto. Ma c’è di più, il che non poteva sfuggire ai servizi militari statunitensi. Era l’unica organizzazione strutturata presente in Italia, in grado cioè di esercitare un certo controllo sul territorio, i cui titoli di antifascismo, ideologico e operativo, erano indiscussi e pregressi, alla luce di quanto scritto da Sciascia e precedentemente ricordato.

Nasceva allora, in quelle ore, quello specifico mafioso che lo rende un unicum dissimile dagli altri aspetti della criminalità comune, organizzata o meno. Nel senso che ladri, assassini e malfattori vari, senza porsi alcun problema sulla necessità delle loro azioni, avvertono comunque una frattura tra i loro comportamenti devianti e quelli della società in cui vivono e che sfruttano. Da cui quel sentimento di esclusione dalla stessa di cui consciamente trasgrediscono le regole che li rende, etimologicamente, dei “banditi” nel senso comune del termine.

Il mafioso, al contrario, appartiene alle categorie dei “banditi” di Hobsbawm…

Nel saggio I banditi, Eric Hobsbawm, uno dei maggiori storici contemporanei (specialista dell’800 ma attento studioso anche del ’900, il “secolo breve” per l’accelerazione esasperata impressa agli eventi della Storia e alle trasformazioni nella vita degli uomini), propone un ritratto del “bandito sociale” assai stimolante per un’applicazione analogica anche al fenomeno mafioso.

Il banditismo sociale, spiega lo storico britannico, ha sempre presentato una straordinaria uniformità di situazioni in ogni luogo e cultura. L’analisi del suo studio, che ricostruisce costanti e componenti sociali, economiche, religiose, rituali e politiche del fenomeno, è centrata sul ribelle all’interno delle società rurali di ogni tempo.

Secondo il ritratto proposto da Hobsbawm i banditi sociali sono sempre epifenomeni inevitabili di una grave frattura del sociale in quanto espressione di una resistenza collettiva che porta allo scoperto, attivo e operante, il rifiuto sin ad allora solo potenziale di un’inferiorità imposta implicando, per la sua stessa esistenza, una sfida all’ordine consolidato. Il punto essenziale risiede nel fatto che i “banditi” «sono fuorilegge rurali, ritenuti criminali dal signore e dall’autorità statale, ma che pure restano all’interno della società contadina e sono considerati dalla loro gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e comunque uomini degni di ammirazione, aiuto e appoggio».[5]

Il fenomeno rispecchia dunque la disgregazione della compagine sociale, l’ascesa di strutture nuove e la resistenza di intere comunità alla distruzione del proprio modo di vivere. Il banditismo, come azione indipendente di gruppi armati e violenti, diventa fenomeno di massa solo dove il potere è instabile, inesistente o indebolito. In situazioni del genere, il banditismo si trasforma in epidemico o pandemico.

Il che appare una lucida descrizione delle condizioni che hanno determinato la nascita e lo sviluppo del fenomeno siciliano. Da cui si evince che una risposta solo militare, per quanto necessariamente propedeutica, non può bastare se non si arriva a comprendere e ad “asciugare” le legittime motivazioni sociali del successo mafioso.

Comunque sia e più o meno paradossalmente, dopo lo sbarco alleato in Sicilia nel 1943 e le nuove condizioni geopolitiche dettate dalla Guerra fredda, la mafia riesce nella mission impossible di rimanere un’organizzazione “bandita” pur installandosi, grazie alle sue altissime coperture internazionali dettate da cinici egoismi concordanti, nel cuore dello Stato. Una sorta di geniale e luciferina “clandestinità istituzionale”…

Una chiave di lettura che si dovrebbe tenere bene a mente a ogni ricorrente e ipocrita stracciar di vesti in occasione delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

[1] A. Cionci, La vera storia dello sbarco in Sicilia, La Stampa, 24 febbraio 2017, https://www.lastampa.it/cultura/2017/02/24/news/la-vera-storia-dello-sbarco-in-sicilia-1.34659610.

[2] G. Marino, Storia della mafia, Roma, 2021, edizione kindle, posizione 2978-2989.

[3] G. Marino, op. cit., posizione 3037-3045.

[4] A. Cionci, op. cit.

[5] Eric J. Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Torino, 2002, pag. 18.

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1 commento

  1. Anonimo

    In una sola parola .. esaustivo

    Rispondi

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