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Il grande albero

A 36 anni dalla morte avvenuta in Mozambico, Gian Micalessin ricorda Almerigo Grilz

Si chiamava Victor. L’incontrai nel novembre 2002 a Dondo, nel nord del Mozambico. Durante la guerra civile degli anni 80 tra il governo filosovietico della Frelimo e i guerriglieri anti comunisti della Renamo era stato maggiore dell’esercito di Maputo. Smessi gradi e divisa si guadagnava da vivere come responsabile della sicurezza della Gmc, una cooperativa “rossa” di Ravenna presente da decenni nel paese. Ero arrivato lì con il collega Franco Nerozzi e Giancarlo Coccia, storico corrispondente africano de “Il Giornale”, per cercare la tomba dell’amico Almerigo Grilz freddato da un colpo alla nuca il 19 maggio 1987 mentre filmava uno scontro tra Renamo e soldati del Frelimo. Bivaccavamo in quel campo grazie alla generosità e alla disponibilità   di Claudio Conficoni, il manager, ex Pci, responsabile locale della Cmc. “Prendete auto e uomini che vi servono…fate come a casa vostra” – ripeteva. E mi rideva in faccia se gli ricordavo che Almerigo Grilz era diventato giornalista dopo esser stato vice-segretario nazionale del Fronte della Gioventù al fianco di Gianfranco Fini. “Ora è morto – sbottava – e se anche è stato “fassista” era prima di tutto italiano. Questo è quello che conta”.

Victor ascoltava silenzioso. Non spiaccicò mezza parola nemmeno quando arrivammo a Caia. Ma quando incominciai a studiare il terreno per capire dove Almerigo era stato colpito fu lui a portarmi nella radura ai margini della città, non lontano da uno zuccherificio. “Di solito – disse – i ribelli arrivavano da qua”. Guardai l’ultimo filmato di Almerigo, le ultime immagini della sua cinepresa. Tutto corrispondeva. Victor sorrise. E fu lui, nonostante il pericolo, ad accompagnarmi a Gorongoza, la zona dove a dieci anni dalla fine delle ostilità la Renamo nascondeva ancora le armi. La zona dove i ribelli avevano sotterrato il cadavere di Almerigo dopo una lunga ritirata notturna. Lì all’imbrunire del 21 novembre 2002 trovammo il grande albero,   il “muthongo” sotto cui riposava. Allora Victor m’abbracciò e mi sussurrò parole mai dimenticate. “Ero uno dei comandanti di Caia, forse c’ero pure io a sparare al tuo amico, ma ci tenevo ad aiutarti perché la guerra è finita e a nessuno interessa più se un giornalista stava con noi o con i nostri nemici. I morti sono tutti fratelli.”

Non qui in Italia. A Trieste dove ogni anno si assegna il premio internazionale che ricorda l’inviato Rai  Marco Luchetta   e gli operatori Alessandro Ota,  Dario D’Angelo e Miran Hrovatin, morti tra Bosnia e Somalia   Almerigo Grilz non viene mai menzionato. Nè tanto meno ricordato. Fuori da Trieste non va meglio. Grilz oltre ad aver raccontato guerre e guerriglie tra Afghanistan, Libano, Etiopia, Mozambico, Filippine, Cambogia e Birmania scriveva per il “Sunday Times” e firmava reportage trasmessi da Cbs ed Nbc negli Stati Uniti, da “Channel 4” in Inghilterra e dal Tg1 Rai qui in Italia. Eppure nonostante quel curriculum, nonostante sia stato il primo giornalista italiano caduto   su un campo di battaglia dal 1945 Almerigo Grilz continua ad essere considerato un “inviato ignoto” dalla maggior parte dei colleghi. Una “damnatio memoriae” sconcertante per una categoria che si guarda bene dal giudicare i trascorsi di colleghi come Adriano Sofri, condannato per l’omicidio Calabresi, Bernardo Valli, sempre e giustamente orgoglioso degli anni trascorsi nella Legione Straniera e di una legione di reduci della sinistra extraparlamentare tra cui, solo per citarne alcuni, Paolo Mieli, Toni Capuozzo,  Enrico Deaglio, Lucia Annunziata, Gad Lerner, Paolo Liguori, Andrea Marcenaro, Carlo Panella, Riccardo Barenghi e Lanfranco Pace. Ma i giornalisti si consolino. A destra non è andata meglio. Gianfranco Fini quando andava a Trieste pernottava regolarmente nella casa di Almerigo, ma una volta divenuto Presidente della Camera, si  guardò bene dal muovere mezzo dito per sottrarre l’amico all’oblio collettivo.

Poco importa. Di una vita conta la storia. La storia di un ragazzo che, unico tra le fila di una destra sclerotizzata, comprendeva, già  negli anni ’70, l’importanza dell’informazione ed imbracciava  macchine fotografiche e cineprese anche  quando  guidava cortei e manifestazioni. La storia di un giornalista   che seppe trasformare la passione politica in passione professionale. La storia di uomo  che, non appena  la politica smise  di regalargli emozioni  l’abbandonò   per trasferirsi sulle prime linee del mondo. Perché se il giornalismo era la sua passione, l’avventura era la sua vita.

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